TheAlbero – storie brevi e poesie piccole
La vecchia, nella penombra della stanza,
seduta sulla sedia a dondolo di legno scuro, disse:
“Allora, hai voglia di sentire le mie storie?
Le immagini compaiono e non posso rifiutarle,
i personaggi mi vengono a cercare e non posso cacciarli.
Ho bisogno di vomitare storie per ricordare e sognare,
per perdonare e combattere, per guarire e raccogliere”.
E le immagini vennero… alcune dal deserto e altre dal mare.
(dal prologo della raccolta di storie brevi di Ilaria Olimpico
pubblicate dalla casa editrice Orient Express Napoli
https://www.orientexpress.na.it/x/author.asp?q=94&s=Olimpico)
Raccolta di testi scelti dal blog thealbero
testi: Ilaria Olimpico
Indice
Quella macchia rossa sulla tovaglia bianca
Casa?
DeepRest
Della vastità delle possibilità
Generazione nomade
Italia, Anno che non verrà
Danza della malinconia
Lalla e la Signora delle piccole cose
Quella macchia rossa sulla tovaglia bianca
Posted on January 2, 2021 by TheAlbero
Una macchia di vino rosso sulla tovaglia bianca nel giorno di festa. Mentre tutti ridono e festeggiano, io osservo la macchia rossa sul bianco. Sangue sulla neve. E’ una macchia rosso scuro. Sangue venoso, sangue con anidride carbonica.
Il vino è caduto sulla tovaglia un anno fa.
E’ passato un anno da quando sono qui, in questo paese lontano, strano. Perché è strano tutto ciò che si allontana da noi, dal nostro modo di vedere le cose. Vedere. E’ per questo che sono partita veramente. La lettera è stata solo un incentivo. Sono partita per vedere con occhi nuovi. Questo monito ha iniziato ad assillarmi da quando ho visto la macchia rossa sul telo bianco. Sangue sul sudario. Come mai per tutti gli altri non era importante e per me era un segno terrificante? Vedere con occhi nuovi. Avevo bisogno di vedere con occhi nuovi. Ma come? Mentre tutti festeggiavano l’arrivo di un nuovo anno, io sprofondavo nella macchia rossa di sangue fresco. Mentre tutti brindavano con i calici di champagne, io annegavo in un bicchiere di vino rosso sangue. Mentre tutti si auguravano felicità e salute, io vedevo malattia e morte intorno a me che si espandevano come una macchia scura sulla tovaglia bianca della vita. I primi giorni di quell’anno nuovo furono giorni vecchi.
La tristezza è sempre accucciata da qualche parte dentro di noi, basta una macchia di vino versata sulla tovaglia bianca, ed ecco che prende spazio. Come un cane randagio, pigro e rinsecchito, con il pelo trascurato e gli occhi umidi, la tristezza si trascina fino alla valle del cuore, prende posto laddove il terreno è stato abbandonato ed è rimasto un po’ grigio e fangoso, laddove ha piovuto un tempo e non si è mai asciugato al sole. La mia tristezza era arrivata nella valle del cuore e mi trascinava nella melma ogni volta che cercavo di alzare lo sguardo per vedere con occhi nuovi.
Nella mia piccola casa non mi mancava nulla. Avevo il mio computer che conteneva le persone con cui chattare, con cui lavorare, con cui scambiare faccine simpatiche e video interessanti. Potevo cercare libri, articoli e perfino detersivi da far arrivare direttamente sulla mia soglia. La mia postina era una signora di mezza età sempre sorridente, gentile, che mi chiamava per nome e mi chiedeva sempre come andava. Mi ricordava come è fatta una persona dal vivo ogni tanto. Uno di quei giorni in cui ero totalmente abbandonata nella melma della valle del mio cuore, accanto al cane spelacchiato e stanco, dagli occhi umidi e il pelo sporco, bussò. Sì, certo, la postina. L’unica che poteva bussare alla porta. Gli altri, semmai, aspettavano in una waiting room di zoom per entrare nel mio sfondo hawaiano per le chiacchierate o nel mio sfondo bianco più professionale per le riunioni di lavoro. Aprii la porta, trascinandomi come il cane bastonato che abitava nel mio cuore, la immaginavo nel suo sorriso solare e bello anche nella più uggiosa delle mattine invernali. E invece no, questa volta non sorrise la mia postina. Aveva la faccia seria e mi consegnava una raccomandata. Una multa? E perchè la mia postina era triste? Comunque, non guidavo da così tanto tempo che sarebbe stato strano ricevere una multa. Firmai con il dito sullo schermo elettronico. Presi la busta. La mia postina restò lì a guardarmi, senza farsi sfiorare dal dubbio che ci potesse essere una certa privacy da rispettare. I nostri occhi si incontrarono per un momento. Mi chiesi: ma lei sa già cosa c’è scritto? Strappai la busta, presi il foglio, lo dispiegai, lessi poche righe. Mi chiamavano di urgenza in un paese di cui ricordavo a malapena la posizione geografica. La mia collega stava morendo e chiedeva di me. Irene. Certo, avevo lavorato con lei tanti, tanti anni fa. Perché chiedeva di me? Stava morendo? Stava morendo e chiedeva di me. La mia postina mi disse di guardare nella busta perchè c’era qualcos’altro. Ma lei come faceva a saperlo? Senza parlare, guardai nella busta, presi un altro foglio, lo dispiegai. Era il biglietto aereo elettronico per il viaggio. Sarei partita l’indomani. La mia postina mi chiese se avessi avuto bisogno di aiuto per prepararmi per il viaggio. Ma come faceva a oltrepassare così semplicemente la soglia della postina e diventare come una sorella? “Sì, grazie.” una parte di me avrebbe voluto dire, con la stessa semplicità che la postina aveva usato per oltrepassare la soglia. Ma il cane mi poggiava la testa sul piede e io riuscii a sillabare: “No, grazie”. Chiusi la porta e quando mi voltai verso la mia casa alle mie spalle, mi resi conto come fosse stata abbandonata. La valle del cuore melmosa e abbandonata, la casa in disordine e sporca. Come fuori, così dentro, come dentro, così fuori. Chi lo aveva detto? Il cane continuava a seguirmi e ad abbandonarsi sul mio piede, rendendo tutto faticoso. Ma qualcosa si era azionato e io, come un robot, lento ma ben programmato, iniziai a mettere a posto e a ripulire. Lavai i piatti, strofinai il fornello unto e schifoso. Ma da quant’è che era così? Sostituii le spugnette, feci un’altra passata di sgrassante, risciacquai con acqua fresca. Lo stesso feci per il bagno. Poi fu il turno della lavatrice e dell’aspirapolvere. Il ronzio della lavatrice e il rumore bianco e costante dell’aspirapolvere mi portarono in uno stato di trance. Mentre il mio corpo continuava a comportarsi come un robot lento e ben programmato, eseguendo gli ordini e passando l’aspirapolvere in modo accurato, la mia mente era trasportata nei ricordi di quando lavoravo con Irene. Un’altra vita. Quello che mi colpi’ nei ricordi fu la sensazione dei nostri visi levigati, lisci, piani.
Finii presto di passare l’aspirapolvere, mi ricordai perché avevo scelto di avere una casa piccola. Stesi la lavatrice. Feci in tempo anche a passare lo straccio bagnato. Ma dove era finito il cane? Lo cercai nella valle melmosa del cuore. Eccolo, si era accucciato in un angolo un po’ più nascosto. Forse aveva avuto paura dell’aspirapolvere? Forse aveva paura dell’acqua. La tristezza temeva l’acqua corrente, che scorre, fluisce, pulisce? La casa sembrava un’altra. La valle del mio cuore era un po’ meno grigia, forse c’era un raggio di sole che avrebbe potuto asciugare un po’ il fango. Come fuori, così dentro, come dentro così fuori. Ma chi lo aveva detto? Mi restava da preparare la valigia. Prima però, avevo bisogno di una doccia, o meglio un bagno. Mi rilassai nell’acqua calda, guardandomi intorno, le piastrelle e i sanitari puliti e profumati, i cipressi sulla collina fuori dalla finestra. Una timida sensazione di apertura all’altezza del petto prese spazio. La valle del cuore fece un respiro. Chiusi gli occhi, piansi. Mi resi conto che in tutti quei giorni in cui avevo abitato la valle della tristezza, non avevo mai pianto. Avevo avuto paura che qualcosa si sarebbe potuto rompere, come una diga dentro, e che non sarei riuscita più a fermarmi. Ma ormai la diga era stata rotta e le lacrime scesero sul mio viso e sul mio collo, e infine nell’acqua della vasca. Acqua nell’acqua. La valle era completamente allagata. Una palude. Proprio nel momento che si stava per asciugare… Eppure sentivo che tutta quell’acqua aveva fatto bene alla palude. Era il momento di uscire dalla vasca, vestirmi e preparare la valigia.
E’ così che sono partita e sono arrivata in questo paese lontano. Sono rimasta un anno. Quando sono arrivata non c’era traccia di Irene. Nel Centro dove lavorava, mi avevano detto che si era sentita meglio ed era partita. Per casa? Chissà. Anche io sarei potuta ripartire, tornare a casa, ma sono rimasta. Ho sostituito Irene al Centro per le pratiche che svolgeva. Mentre guardavo le cartelle dei documenti di progetto, riconoscevo il suo scrupolo per l’ordine, leggevo le etichette e gli appunti e riconoscevo la sua calligrafia elegante eppure corposa. Intanto, intorno a me non ri-conoscevo nulla, tutto era un mistero. Tutto era strano. E’ strano tutto ciò che si allontana dal nostro ordinario modo di vedere le cose. Vedere con occhi nuovi. Era questo monito che portavo con me. Un monito che non era bastato per uscire dalla valle della tristezza del mio cuore, ma che si era come risvegliato e rinvigorito da quando quella mattina avevo ricevuto la raccomandata, avevo pulito casa, avevo fatto il bagno di lacrime e avevo fatto la valigia per partire.
I colori di questo paese sono diversi dai colori del mio paese. Le colline di cipressi e roverelle hanno lasciato il posto a colline di sabbia più scura e meno scura, che di sera diventano onde di viola e celeste, stagliate su un cielo blu scuro con piccole stelle scintillanti. Forse stavo iniziando a vedere con occhi nuovi. Un giorno avevo detto proprio così a una bambina che frequentava il Centro: “Sto iniziando a vedere con occhi nuovi” e lei, con una smorfia di infantile saccenza, mi aveva detto: “Strano, vedere con occhi nuovi è proprio cambiare occhi!”. Mi aveva fatto sorridere all’inizio, ma una parte di me era stata infastidita e indispettita. Certo, era ovvio. Eppure, mi ero trastullata all’idea che qualcosa stesse cambiando in me, seppure a cambiare erano le cose intorno a me. Non stavo iniziando a vedere con occhi nuovi, stavo solo vedendo cose nuove. A volte, nei sogni, appariva di nuovo la macchia di vino rosso sulla tovaglia bianca. Di giorno mi riempivo gli occhi delle strade di terra battuta marrone e delle linee rosate e beige delle colline basse. Di sera mi riempivo gli occhi dei tramonti in viola e, come un Piccolo Principe, avrei spostato la sedia per vederne trentasei di fila se fosse stato possibile.
Poi vennero i giorni della malattia. Tutto il paese fu sconvolto da una malattia nuova. Mentre si diffondeva la notizia dei casi di infetti che crescevano, immaginai il panico e l’isteria collettiva che può segnare questi eventi. Io stessa fui presa dal panico. La macchia rossa si allargava su tutta la tovaglia bianca. Ma perchè ero andata fino a lì? I giorni si susseguirono con una calma strana. Strano è tutto ciò che non ci aspetteremmo. Le persone di questo paese accompagnavano i malati nella malattia, come in un viaggio e così, anche, stupefacentemente, nella morte. Mai vidi paura nei loro occhi, semmai tristezza. Durante i riti funebri, c’era un momento circoscritto in cui i familiari e gli amici del defunto, al ritmo dei tamburi, prendevano lo spazio al centro di un cerchio di persone, si dimenavano, urlavano, piangevano disperatamente, alcuni cadevano in ginocchio e si strofinavano forte il viso impastato di lacrime. Poi il ritmo si acquietava e loro con lui, i tamburi cessavano di essere battuti, e loro cessavano di battersi col dolore. Allora il defunto veniva cremato e i familiari e gli amici iniziavano un mugugno, basso e scuro, che si trasformava progressivamente in un canto, arioso e sciolto, bellissimo.
Proprio durante i giorni della malattia, arrivò il nuovo anno. Per me era anche passato un anno dalla macchia rossa sulla tovaglia bianca. Notai che non si auguravano i nostri auguri. Strano. Strano è tutto ciò che si allontana da ciò che già conosciamo. Alla mia collega che era diventata un’amica, mi azzardai a dire: “Auguri di felicità e salute per questo nuovo anno”. Lei mi guardò perplessa, come se avessi detto qualcosa che si dice ai bambini per farli calmare e si sa che si sta mentendo. Ma la verità è che qui, mai ho visto le persone comportarsi in tal modo con i bambini. Mentre mangiavamo e le persone ringraziavano i loro dei e le loro dee per ciò che era stato e ciò che sarà, la donna dalla tunica lunga marrone stese un telo bianco al centro del cerchio, lascio’ cadere, da una ciotola di legno, un colore rosso porpora. Macchie rosse sul telo bianco. I bambini e le bambine dalle macchie disegnarono con le piccole dita figure misteriose.
“Che sappiate essere felici e in salute. Che sappiate trasformare le macchie in disegni. Che sappiate trasformare la malattia in un viaggio di apprendimento e la morte in un incontro con il più grande mistero”.
Casa?
Posted on September 3, 2020 by TheAlbero
Seguo la linea della collina.
Alti i cipressi svettano tra le roverelle,
come pastori con le proprie pecorelle.
Un drago di nuvole bianco
spalanca le fauci
sul lago quieto e stanco.
DeepRest
Posted on September 1, 2020 by TheAlbero
Dondola la Noia i giorni tutti uguali.
Culla la Malinconia i pensieri tristi e piani.
Lo Stupore abbandona lo Sguardo.
I Sensi abbandonano il Corpo.
L’Energia scivola via tra le Mani spaccate,
dilaniate nello sforzo di tenere insieme ciò che più non si tiene.
Ragnatela della Depressione intrappola sogni vecchi e speranze nuove.
Avviluppa il Passato nel grigio dei Rimpianti,
sconvolge il Futuro nella nebbia dell’Incertezza.
Ragno della Resa tutto divora. Nulla resta.
Della vastità delle possibilità
Posted on July 4, 2018 by thealbero
Luna pensava che era proprio questo il punto: volere a tutti i costi mantenere una logica nella prosecuzione dei punti! Ogni passo doveva corrispondere a un puntino di quelli che si trovano nei giochi degli album dei bambini, che, se uniti, alla fine, danno una forma precisa, sensata, pensata da prima.
Ecco il punto! Lasciare spazio affinché i puntini possano essere liberi dalla predisposizione a una forma. Come la storia dell’uomo che si svegliò di notte e facendo i suoi passi per sistemare la vasca che perdeva, solo al mattino si rese conto di aver disegnato, con i suoi passi nel fango, la forma di una cicogna. Solo al mattino, cioè a posteriori, vede quale forma sia venuta fuori dai suoi passi.
Mentre Luna pensava a tutto ciò, cercando di chiarire le sue intenzioni traducendole in parole e discorso, iniziava il viaggio verso sua sorella Sara, in treno.
Certo, il treno non era il mezzo di trasporto più veloce, visto che sua sorella abitava esattamente dall’altra parte del paese, ma aveva scelto di percorrere lo spazio, da costa a costa, in modo da accorgersi del cambiamento delle immagini e dei suoni, del paesaggio e dei dialetti. In aereo, in un’ora di volo, sarebbe arrivata, calcolando anche il tragitto dagli aeroporti e il tempo di imbarco e sbarco, se la sarebbe cavata in meno di mezza giornata. In treno, ci avrebbe messo due giorni con soste brevi in tre città.
Viaggiava leggera, trolley piccolo per le sue cose; zaino con documenti, soldi e libri per il viaggio; sacca con i regali per le nipotine: un libro di animali per la più piccola, una scatola con perline e fili per collane fai da te per la mediana, un rossetto per la nipote ormai adolescente. Tre femmine. Tre, dieci e quattordici anni.
Ci pensava, e si chiedeva se da piccole, qualche volta, lei e la sorella, avessero mai pensato che potesse andare così… immaginava una chiacchierata con Sara.
Ti ricordi quando passeggiavamo in riva al mare e ci confidavamo sui ragazzi che ci piacevano? Di quanta drammaticità vestivamo le nostre piccole infatuazioni da adolescenti! Chissà se abbiamo mai avuto idea di come sarebbe stata realmente la vita adulta, a volte drammatica, senza bisogno di vestimenti di scena. Ti ricordi, Saretta? Io dicevo sempre che avrei avuto tre figli e tu non ne volevi… e guarda, tu con tre bambine e io niente figli e niente marito! Quanto mi manchi Saretta! A volte penso di essere gelosa delle tue figlie. Vorrei averti per me. Che egoista sono. Forse lo sono perché a volte sono troppo triste.
Ma no, quest’ultima cosa non gliel’avrebbe detta. Gli occhi si erano riempiti di lacrime.
Iniziava a fare buio e il finestrino invece di regalare i paesaggi fuori restituiva il suo viso, un’immagine triste con una colonna sonora dura di rumore stridente sulle rotaie.
Luna si era addormentata così profondamente che il controllore aveva dovuto scuoterla per svegliarla. Era arrivata alla prima città di sosta. Era sera tardi e fortunatamente aveva prenotato un posto proprio all’ostello vicino alla stazione.
Sara, ti ricordi il nostro primo viaggio da sole con gli amici? Tu sentivi un po’ la responsabilità della sorella maggiore, vero? Dai ora me lo puoi dire! Pensavi che non avrei mai dormito in tenda e non mi sarei mai abituata a usare la doccia in comune con i maschi. Sì, lo sai, ero molto timida e in me avevano attecchito tutti i tabù. E adesso, guarda, dormo in una camera multipla mista con bagno nel corridoio e mi godo la doccia canticchiando e ti dirò, uscirò nuda per prendere l’asciugamano senza preoccuparmi minimamente dello sguardo degli altri sul mio corpo. Il mio corpo come e’ cambiato Sara, con gli anni… e il tuo anche… mamma tre volte.
E mentre la sua mente produceva e riproduceva probabili e improbabili monologhi con sua sorella si addormentò di nuovo, in accappatoio bianco da ostello, sul letto basso con le reti un po’ smollate.
La mattina presto, Luna era in attesa al binario due, sfogliando il giornale. La colpi’ l’articolo di un artista che si era fotografato con il figlio ogni giorno da quando era nato per dieci anni. Erano riportate solo alcune delle foto naturalmente ed era impressionante poter seguire i cambiamenti dei lineamenti, delle espressioni e sottilmente della prossemica del papà e del figlio nelle foto. Come era emozionato il papà con il neonato con gli occhietti ancora chiusi. Come era smorfioso il bambino piccolo e divertito il papà con la barba un po’ cresciuta. E come diventava quasi seccato il ragazzino con il papà investito da un riflesso grigio tra i capelli.
Saretta, che bella idea! Troppo tardi per poterlo fare anche noi. Che peccato! Immagina noi due in foto, sempre vicine, per dieci anni, giorno dopo giorno… wow! Ma quante foto sarebbero?? Io neonata e tu di cinque anni che ritieni di aver perduto il tuo posto a tavola. Io di un anno che cerco di mangiare il tuo gelato. Io di sei anni con il grembiulino rosa che ti do’ la mano per il mio primo giorno di scuola. Io di dieci anni che ti guardo ammirata mentre metti il tuo primo mascara. E poi? Se avessimo continuato? Io adolescente depressa e insicura alla tua festa megagalattica di diciotto anni mentre almeno tre ti corteggiano. Io laureata con il massimo dei voti e tu già mamma affaticata. E adesso, chissà come sarebbe la nostra foto… io boh, tu mamma appena separata con tre bambine. E com’è una mamma separata con tre bambine? Arrabbiata e stressata forse. Oppure no, indipendente e affermata. Come stai, Saretta, in questo momento di grande cambiamento?
Il suono prolungato strisciante e stridente della frenata del treno la distolse dall’ennesimo monologo con la sorella. Entrò in treno, sedili blu, in pelle ovvero plastica, menomale, li odiava i sedili in tessuto che si impregnano di odori e sudori. Era libero il posto vicino al finestrino. Ecco, due minuti e la sua vicina cambiò posto. Certo, si era dimenticata che era nella zona del paese più fortemente razzista. Una sfumatura più scura di pelle e pensano che lasci la lebbra. E’ per questo anche che era andata via dal paese dopo l’Università, per cercare un posto dove potesse sentirsi guardata come umana e non come “quella scura”. Aveva amato Aimé Césaire e poi Frantz Fanon. “Se mi odiano è per il mio colore di pelle, se mi amano è nonostante il mio colore di pelle.”
Anche per questo, forse, ti invidiavo, tu eri uscita più bianca di me. Da piccola pensavo che avessi preso più pelle del papà e meno della mamma, ma poi guardavo il papà così assente dal mondo sociale, dal contatto con gli altri e la mamma invece così invischiata nel mondo, che sembrava sempre stesse su un autobus stracolmo per come si approcciava alle persone. E allora pensavo: non è possibile che Sara abbia la pelle di papà che segna confini così precisi e netti col mondo. La pelle é il confine tra il dentro e il fuori. Io ce l’avevo così spessa, come papà, mi sembrava… e invece, Sara, se sapessi… La pelle mi si spaccava, mi si apriva, mi gridava di mettere un confine tra dentro e fuori.
Ma comunque, ho superato sia la fase di “negritudine”, sia la sensazione di perdere i confini di me stessa. “Nel mondo in cui mi incammino, mi creo interminabilmente” scriveva Fanon.
Ecco che tornava la riflessione con la quale era iniziato il viaggio. La storia dei puntini, i puntini che devono lasciare una forma. Ma l’intuizione era che solo nei giochi degli album dei bambini i puntini sono preordinati e la forma é pensata a priori; nella vita, la forma dei passi che facciamo é rivelata solo a posteriori. Deve essere a posteriori, pena la vastità delle possibilità. Doveva scriverlo da qualche parte per non dimenticarlo.
Il viaggio era lungo. I paesaggi in questa zona erano aridi: fichi d’India e cactus, terra brulla e gialla. I dialetti avevano le vocali strette, come per trattenere fiato ed energia. E il razzismo era imperante. Un’altra persona era salita alla fermata e aveva preferito stare in piedi piuttosto che sedersi accanto a Luna. Che pugno allo stomaco questo rifiuto silenzioso, quasi cortese. Quante volte, da ragazza, Luna aveva sentito la pelle scura, ispessirsi, diventare più preponderante di qualsiasi altra parte di lei, viso, occhi, mente, parola, pensieri, cuore. Aveva sentito di diventare solo pelle; e a un certo punto una pelle vuota. Lo sguardo bianco posato su una pelle scura. Uno sguardo che svuota. Se va bene, rende infantili. Se va male, rende poverini. Se va peggio, rende inferiori. Comunque rende “al di sotto”.
Sara, come continua a fare male questo sguardo. Ti ricordi nostra madre che recitava la parte della madre di Fatima Mernissi e diceva: “piangere davanti agli insulti significa chiederne ancora. Devi imparare a protestare proprio come hai imparato a camminare!”. E a me, la figlia scura, diceva: “Togliti di dosso quell’aria da povera mulatta, non entrare nel gioco “pelle nera maschera bianca” che ti vogliono far giocare! Sei Luna e non la povera mulatta!”. Tu non ti ricordi perché eri la figlia di pelle chiara. Per nostra madre era facile farsi rispettare, aveva senso dell’umorismo, grande autostima, coraggio e uno status sociale di riguardo come ricercatrice quotata e docente di Letteratura straniera all’Università. Ti ricordi quando metteva in ridicolo chi voleva giocare il gioco “pelle nera maschera bianca” come lo chiamava lei?
In treno scorrevano paesaggi e pensieri, fluidi, come sui binari. In treno, non c’è traffico, al massimo coincidenze, non ci sono sorpassi, al massimo fermate. Era ora di scendere e fare un cambio del treno. Cambiare anche aria, atmosfera. La zona del paese razzista era limitata. Sembrava quasi un’enclave, come un piccolo pezzo di mondo sorpassato che rimaneva come sigillo di memoria ai posteri. O come un passato che non era completamente passato.
Luna si era fermata per prendere qualcosa da mangiare al bar della stazione, aspettando l’altro treno, non avrebbe avuto neanche il tempo di fare un giro nella seconda città di sosta.
“Ti aspettiamo intrepide zia! Chissà che storia ci racconterai!”. Luna aveva ricevuto un messaggio delle nipotine, finalmente! Un po’ se lo aspettava, era preoccupata che fossero arrabbiate con lei perché era tanto che non andava a trovarle. Aspettavano le sue storie! Ma lei era ancora capace di inventarle al momento, provando quei brividi di eccitazione, al sentire la sua voce raccontare come se fosse già tutto scritto, pensato? Ah ecco, torna la riflessione dell’inizio del viaggio: e se la vita fosse proprio come una storia improvvisata con il pubblico, in cui non e’ pensata a priori, ma si forma via via che evolve, attraverso gli sguardi dei presenti e le suggestioni del momento? Certo, se si ha paura, non si riesce a improvvisare, ci si rifugia in una storia conosciuta. Ma se si ha fiducia, allora si apre una vastità di possibilità e si sente il fremito dell’ispirazione che viene dall’incontro del presente, del qui e ora.
Sara, non scrivo da così tanto tempo! Sì, l’editore incalza, ma io non riesco a scrivere più. Se mi sforzo di scrivere, i racconti mi sembrano così banali e ideologici, sembra che voglia trasferire un’idea o un concetto in una storia, oppure al polo opposto, mi vengono così pateticamente autobiografici! Come vorrei che i personaggi mi venissero a cercare come facevano un tempo, presentandosi con nomi propri e storie saporite, con un finale che riesce a stupire anche me!! Sì forse sono in crisi: la crisi della scrittrice di mezza età! E se finora avessi sbagliato lavoro? Avessi sbagliato vita? No certo, non si può “sbagliare vita”, hai ragione. Lo dico a te che ti sei appena separata?
Scusa. Ma non mi hai detto neanche cosa è successo.
Così diretta non sarebbe mai stata. Ma come glielo avrebbe chiesto alla sorella? Non avrebbe chiesto. Certe cose non si chiedono. Chissà cosa era successo alla bella coppia Sara e Matteo. Come sono diverse le vite da dentro e da fuori. Si vedono le foto sorridenti sui social, i meravigliosi panorama delle vacanze, le cene con i colleghi prestigiosi al ristorante e si pensa “che bella vita che fanno! Beati loro!”. E la vita da dentro, quella che non si fotografa e non si pubblica?
Saretta, se facessimo il gioco di “immagini e storie”, quali sceglieresti tra queste immagini della rivista per raccontare cosa è successo? Forse l’immagine del bagno e l’immagine della donna che piange, perché sono sicura che come tutte le donne di famiglia, andavi sempre in bagno a piangere di nascosto. Ti immagino, mentre a cena con i colleghi sorridenti, a un certo punto, ti sei alzata e sei andata in bagno, non perché ti scappava la pipì, ma perché ti scappavano le lacrime. Ti immagino nelle vacanze con i meravigliosi panorama, mentre non avevi voglia di alzarti dal letto, percorsa da una leggera e quasi dolce nostalgia, cullata dalla frase: “Vorrei dormire per trecento anni”. Ti immagino con le bambine mentre cenate e lui ritarda o non torna e tu inventi scuse, tentenni, e poi esplodi contro di loro, per un niente, riversando tutta la frustrazione su chi non può controbattere. Come é andata Saretta mia? Come stai?
E mentre Luna immaginava le foto non scattate della vita da dentro di sua sorella, le scapparono lacrime dagli occhi. Non andò in bagno a piangere. Lasciò che i vicini di viaggio si imbarazzassero per le sue lacrime e guardassero altrove. La tristezza imbarazza. Non sappiamo accoglierla. E’ come una macchia sul vestito buono nel giorno di festa. Imbarazzante.
Intanto i paesaggi continuavano a scorrere, il tempo scorreva e arrivava la sosta nella terza e ultima città prima di arrivare a destinazione.
Qui Luna può passare un po’ di ore prima di prendere il treno notturno che la porterà da Sara e dalle sue nipotine.
La stazione è proprio in centro e la città è carina. Luna fa un giro nella piazza, sorgono una accanto all’altra: sinagoga, moschea, chiesa e tempietto buddista. Sembra la piazza di un futuro possibile dopo aver attraversato la zona razzista, lapide pesante di un passato ancora non definitivamente passato. Qui la terra è rossa umida, i fiori sbucano da vecchie lattine appese in ogni angolo, anfratto, muretto. Il dialetto ha vocali aperte, come per accogliere e scandire. Una signora col velo prepara all’istante ricami con il nome su bavette e tovaglioli di stoffa. Un uomo dalla pelle di ebano intaglia mobili di ebano. Una giovane ragazza biondissima si esercita in piazza in una danza che sembra caraibica. Luna scatta delle foto nella piazza di un futuro possibile. Un uomo di mezza età, con la barba increspata appena di argento, i capelli corti arruffati, dipinge. Luna si avvicina, si aspetta di vedere sulla tela il panorama con la torretta medievale e le nuvole del tramonto e invece, stupita e stranamente assolutamente non stupita, la tela le rimanda la sua sagoma e il suo viso abbozzato sotto il cappello di paglia a falda larga scura. Sorride con sguardo interrogativo e il pittore, bellissimo, adesso che può vederlo da vicino, sorride e perfeziona il ritratto, guardandola attento e amorevole. Amorevole?
Saretta, non è possibile! Ecco, questa sarebbe perfetta come storia da scrivere, veramente un romanzo, ma che strano, mi sembra di avere venti anni e di potermi innamorare. Innamorare… forse etimologicamente viene da “andare dentro l’amore”. Sì, è proprio come tuffarsi, andare dentro, fidarsi.
E così Luna si fida, dopo tanti anni, si fida e prende un gelato con André, pittore e “consulente d’azienda per lo sviluppo di organizzazioni orizzontali con centro vuoto”. Si’ forse è davvero la piazzetta del futuro possibile. André abita proprio dove abita Sara, e così Luna e André prendono lo stesso treno. I monologhi immaginari con Saretta sono sostituiti da dialoghi reali fitti fitti con André per tutta la durata del viaggio. Ultima fermata. Città di destinazione. Incontro con Saretta finalmente.
Luna, quante cose ti direi, sorellina mia! Ti ho immaginato al mio fianco, quando nascosta in bagno, piangevo. Sei sempre stata accanto a me. Mi chiedi se sono arrabbiata e stressata, no, della rabbia me ne sono liberata abbastanza in fretta, per la tristezza ci ho messo un po’ di più a lasciarla passare, ma adesso, adesso lascio il campo alla vastità delle possibilità. Ero arrabbiata non tanto con Matteo, ma con me stessa, perché non riuscivo più a collegare i puntini della mia vita per arrivare alla forma che avevo pensato. Ma non possiamo sapere la forma che ci restituiranno i nostri passi, come puntini di un gioco di un album per bambini. Solo a posteriori, potremo guardare quale forma hanno disegnato i nostri passi, solo fidandoci della vita, abbandonandoci alla vastità delle possibilità, potremo sorprenderci della forma che ci lasceremo dietro.
Generazione nomade
Posted on March 1, 2018 by thealbero
Quando mi veniva a trovare mia nonna paterna di Salambè, trovava sempre in tutto quello che facevo e non facevo il modo per dirmi con soddisfazione: “Sei di Salambè, proprio come la nonna!”. Quando passeggiavo con mia zia materna, nella terra che era di mia madre, spesso mi chiedevano: “e questa bambina a chi appartiene?” Che significa nella terra che era di mia madre: “qual è la tua famiglia, o meglio per intenderci più sottilmente: qual è il tuo clan?”. Quando cambiavo scuola, e la cambiavo spesso, perché i miei genitori si spostavano molto, le maestre mi chiedevano: “da dove vieni?”.
Così, da piccola, iniziarono presto ad arrivarmi una serie di indicazioni, più o meno esplicite, che mi intimavano di definirmi in base a un’appartenenza, e il più delle volte, dando per scontato che questa appartenenza, a un clan, a una terra, fosse unica e immutabile.
Finché fui una bambina, guardai con curiosità la ricerca della mia appartenenza; da adolescente, iniziai a guardarla con ansia e angoscia; da giovane donna, dapprima la rinnegai, e poi me ne costruii una particolare.
Da piccola, ero curiosa di quel che dicevano gli altri sulla mia appartenenza, visto che ognuno proiettava su di me quello che più faceva comodo.
La famiglia di mio padre, soprattutto mia nonna, era una combattente determinata nel dimostrare tutte le evidenze che testimoniassero la mia appartenenza a Salambè. Certo, talvolta diventava per me un test angosciante dire ciò che mi piaceva e cosa no, perché essere accettata – e quindi amata – sembrava coincidere con il mio indice di “salambitudine”. La famiglia di mia madre, dall’altra parte, avendo componenti di varie provenienze geografiche, ma tutti legati dalla conoscenza della lingua Talai, intessevano un discorso simil-culturale, insegnandomi, con pignoleria, termini, espressioni, poeti e scrittori di lingua talai, perchè io fossi totalmente Talai.
A scuola era abbastanza semplice, ero riconosciuta come appartenente all’ultimo paese che avevo lasciato per alcuni, e per altri al paese dove ero nata. Così, iniziai, da piccolissima, ad avere premura nel sapere quali paesi attraversavamo. Quando mia madre sentii che confondevo le città, i paesi e i continenti, mi suggerì di immaginare tante scatole, alcune grandissime, che erano i continenti, che contenevano scatole leggermente più piccole che erano i paesi di quei continenti, che contenevano a loro volta altre scatole più piccole che erano le regioni, che a loro volta contenevano città e paesini. Questa immagine di scatole cinesi ebbe un grande impatto su di me e ancora oggi ho la fantasia di realizzare. un giorno, un gioco didattico di geografia, partendo da questa visione.
Da adolescente, all’inizio mi divertii a sfruttare a mio favore stereotipi e appartenenze. Con mia nonna paterna, bastava chiedere le cose come appartenenti alla cultura Salambè e qualsiasi cosa mi era concessa. Se cambiavo paese, mi travestivo, letteralmente, usando alcuni codici di abbigliamento orientali per affascinare o intimidire, mi truccavo in modo da rinforzare i miei lineamenti salambè o piuttosto i lineamenti meridionali. Il colore della mia pelle non era nettamente determinato, così potevo sfumarmi più o meno olivastra, più o meno bianca, a seconda di dove ero e di quale reazione volessi provocare.
A scuola, conoscendo gli stereotipi che giravano sui diversi popoli, giustificavo i miei comportamenti come caratteristiche culturali, uscendo dalla responsabilità personale; o altre volte, giocavo sulla diversità culturale per fregiarmi del titolo di vittima di razzismo con i prof Animebelle e giocando l’appartenenza più nordica che potessi trovare con i prof che, nei meandri più sconosciuti delle loro menti, ospitavano pregiudizi e gerarchie tra culture.
A volte, davvero ero vittima di discriminazioni, ma più che altro, di isolamento, dal momento che il mio non facile incasellamento risultava strano, faticoso, imbarazzante, disagevole, fastidioso, snervante, insopportabile.
Passavamo da un paese all’altro e mi rendevo conto di come potevo attirare su di me stereotipi positivi o negativi, solo a seconda che ci spostassimo da nord a sud e viceversa o da ovest a est e viceversa. Non attecchirono su di me le etichette e non interiorizzai né gli stereotipi positivi, né quelli negativi. Viaggiavamo troppo in fretta per farli attecchire.
Certo, giocai tanto con questa mia consapevolezza e con le maschere, tra quelle che mettevo per imbonire, per provocare, per impietosire, per farmi superiore, a seconda delle teste e dei paesi che attraversava la mia immagine.
Poi, indossando sempre più maschere, nere, bianche, orientali, nordiche, meridionali, iniziai a non capire più quale era il mio volto.
Chi ero? Come mi chiedevano quando passeggiavo con mia zia: a chi appartenevo? Ero nata in un paese di passaggio, in cui non ero vissuta mai, di cui non conoscevo la lingua, i miei genitori girovaghi non davano alcuna importanza all’identità, o almeno così mi sembrava, la famiglia di mio padre che a tutti i costi mi voleva Salambe’ mi divenne odiosa, rifiutai con violenza questa identità, fino a rinunciare a mangiare il mio piatto preferito (salambe’!). Cercai rifugio nella lingua. La lingua madre. Per tutta la tardoadolescenza definii la mia identità attraverso la lingua. Abitavo la lingua talai. Pur conoscendo almeno due altre lingue in maniera fluida, sentivo che le emozioni più profonde avevano i vestiti della lingua talai.
Mi raccontai da giovane donna di avere le radici non in una terra, ma in una lingua. Soprattutto quando viaggiavo in paesi che non parlavano la lingua talai, mi piaceva cullarmi nella nostalgia da esilio, con le poesie e i romanzi della mia lingua. Finché anche la lingua mi si rivelò come una lingua matrigna e non madre. Quando andai ad abitare proprio vicino ai miei zii materni, cultori della lingua talai per me come una veste identificativa. La lingua che parlavano diventava una gabbia, una trama di espressioni per generare sensi di colpa, ricatti affettivi, una rete di codici segreti per escludere e rimarcare chi è del clan e chi no.
Adesso, sono consapevole che continuo il nomadismo dei miei genitori. Passiamo tutti da un luogo all’altro, loro per apprendere qualcosa su ogni luogo, io per apprendere in ogni luogo qualcosa su di me.
Non abito nessuna lingua in maniera esclusiva, nessuna lingua è la mia patria, semmai un certo tipo di linguaggio è la mia terra.
Non appartengo a nessun luogo e nessun clan in maniera esclusiva, attraverso paesaggi naturali-antropici-relazionali, incontrando gelo e fiori, degrado e bellezza, conflitto e amore, a tutte le latitudini, a tutte le longitudini.
Italia, Anno che non verrà
Posted on February 24, 2018 by thealbero
Aveva ragione mia zia a ripetere di aggiungere il mio cognome materno, italiano, al cognome di mio figlio. Io, invece, orgogliosa e anche un po’ altezzosa, pensavo: che sciocca, non succederà mai, mica siamo negli anni Venti in Germania?
E ora, ora che ho paura che mio figlio possa essere cacciato, andrei a cambiarglielo il cognome. Ma poi penso: che orrore! Pensare di salvare solo se stessi, i propri familiari.
Mi hanno raccontato di una donna cristiana, sposata a un ebreo, in Germania, negli anni Venti, che fu avvertita in tempo da una familiare, moglie di un SS, di ripudiare il marito per avere salva la vita. Non lo ripudiò. Non ripudiò l’ebreo di casa. Morì. Con l’ebreo. Come un’ebrea. Come tutti gli altri ebrei presi in quella notte.
Mi domando qui nel quartiere, nel vicinato, nella città, se è possibile che in tutti questi anni non abbiano fatto amicizia con almeno una persona di origine straniera, o una persona con moglie, marito, figli, stranieri. Le rinnegheranno? Hanno davvero potuto tenersi così lontani dallo straniero? La moglie dell’albergatore, ecco, mi sembra sia di origini rumene. Il figlio di Maria, è adottato, forse di origine Est Europea. La badante dei signori del palazzo di fronte è ucraina. La odiano? La apprezzano? Le vogliono bene? I ragazzi del negozio di pizze che prima era anche di kebab hanno amici? Chissà… con le nuove leggi hanno proibito il kebab. Per ragioni di economia nazionale. La pizza italiana prima di tutto. Quando lo sapemmo a casa, ci facemmo una grossa risata. Che assurdità! Sembrava una trovata pubblicitaria di pessimo gusto. Invece era vero. E noi avremmo fatto bene a non ridere.
C’è stato ovviamente un momento in cui la tensione si è alzata. Non per tutti è arrivato nello stesso momento e con la stessa intensità. C’è stato un momento in cui chi protestava ha scelto il linguaggio dell’odio, della commiserazione, del disprezzo. E’ stato travolto dalla stessa onda che cercava di controbilanciare. Sì, a quel punto, forse, è cambiato qualcosa. Abbiamo iniziato ad aver paura sia di chi attaccava gli stranieri, sia di chi attaccava chi attaccava. Erano iniziate le scazzottate, le ritorsioni, le minacce, gli incendi alle sedi dei partiti, degli uni e degli altri. Così, la maggioranza di cui facciamo parte, ha scelto di restare ad aspettare. Ormai, non ne parlavamo neanche tra amici per evitare discussioni, avevamo relegato il problema ai gruppi estremisti o alla “politica” (quella che non ci rappresentava più, ma continuava a esistere al di là dei nostri non voti). Abbiamo iniziato a cullarci nella maggioranza, quella silenziosa, nel suo rassicurante non far niente, né di qua né di là. Magari avremmo dovuto fare qualcosa proprio nel mezzo del di qua e del di là.
Ora stanno procedendo alla fase concreta di “salvaguardia dell’identità nazionale”, ossia alla cacciata di tutti i non italiani dai confini della Nazione Italia. Una decisione voluta dal Popolo, neanche i partiti di “sinistra” si sono potuti opporre. Come siamo arrivati a questo?
Molti sono stati contenti quando i soldi spesi “per l’accoglienza” sono stati tagliati. Certo, lo sono stati meno tutti i gestori, italiani, privati e associazioni, che avevano come lavoro “i centri di accoglienza”. Marco, proprietario dell’hotel che “accoglieva” richiedenti asilo, era uno di quegli uomini che dicono nella stessa frase: “poverini, hanno fatto un viaggio difficile… pretendono tutto, sono pigri… dovremmo inviare i tecnici nei paesi loro per insegnare… io gli dò tutto …”. Marco era contento di avere il suo hotel vuoto e il suo conto senza più bonifici della Prefettura o chi per essa? Dove erano andati tutti i richiedenti asilo, tra cui donne con bambini? Non saprei, alcuni dicono che si erano creati ghetti in zone spopolate in cui c’era scempio e disordine, dovuto alla frustrazione e alla mancanza di qualsiasi assistenza sanitaria, altri dicono che si erano create realtà autorganizzate che somigliavano a isole di pace e che i “pigri” erano finalmente contenti di poter essere autonomi, fuori dalle prigioni dorate e non dorate e fuori dallo sguardo giudicante. Comunque sia, inferno o paradiso che avessero creato, sarebbero stati presto spazzati via e cacciati tutti.
Abbiamo storto il naso quando abbiamo sentito commenti farciti di stereotipi, ma non abbiamo insistito a introdurre nelle scuole un approccio rispettoso e valorizzante delle differenze e non abbiamo trovato modo, tempo, soldi, per iniziative che combattessero gli stereotipi, rivisitando tutte le rappresentazioni degli altri popoli, uscendo dalle prospettive che mettevano sempre noi al centro. Abbiamo pensato che c’erano cose più urgenti? Abbiamo pensato che tuttavia gli stereotipi sono sempre esistiti e le parole non fanno poi così male? Abbiamo pensato che saremmo stati noiosi e buonisti e avremmo fatto peggio contrastando la cultura xenofoba? Abbiamo pensato e poi ci siamo subito censurati che tuttavia gli stereotipi hanno fatto breccia anche dentro di noi?? A scuola non ci hanno forse consegnato l’immagine dell’Africa povera da sempre, arretrata da sempre, e l’immagine di un Medio Oriente immobile in cui non ci sia stato niente di valore dopo il tempo della Mezza Luna Fertile?
C’e’ stata poi tutta una fase di spiegazione logica-razionale-scientifica del legame tra criminalità e stranieri. “Le statistiche lo dimostrano”, “un po’ è vero”, “alcuni certo, non tutti, però molti”, tutte queste frasi le abbiamo sentite o le abbiamo dette?. Qualcuno ha sussurrato l’espressione “profezia che si autoavvera” ma non ha riscosso lo stesso successo di “non sono razzista ma…”.
E se davvero, dimenticando che i dati e i numeri e la scienza sono anch’esse frutto di scelte e passibili di interpretazioni soggettive, se davvero fossero tutti di origine straniera, forse di una particolare origine di una zona geografica x, i ladri, quale sarebbe la riflessione e l’azione? Tutti via i provenienti dalla zona x. Oppure chiedersi perché tutti quelli della zona x diventano ladri? Quale altro dato dobbiamo incrociare? Dove vivono? Come vivono? Quali relazioni hanno? Mi sto dedicando a una ricerca quantitativa che mette in relazione fasce di età e sesso con episodi di violenza, sapete quale è il mio risultato “scientifico”? Che i violenti sono maschi tra i 16 e i 30 anni. Ecco, tutti i maschi tra i 16 e i 30 anni, via dai confini.
Intanto continuavano a crescere le organizzazioni e i partiti che raggruppavano i ragazzi dei quartieri popolari. E noi dove eravamo? Una volta incontrai un ragazzetto che insultava un signore del Bangladesh, non capii neanche il motivo. Forse non c’era nessun motivo. Lo insultava come se fosse la cosa più normale del mondo. Gli dissi: “ma che succede? Non mi sembra questo signore abbia fatto nulla…” e il ragazzetto: “Nulla? Ma non lo vedi come sono conciati? Che vergogna! Sporcano, puzzano… e danno tutto prima a loro… la casa tocca prima a loro e noi?” e io rimasi zitta. Non seppi cosa dire. Forse avrei dovuto accogliere prima di tutto il suo bisogno di essere visto, ascoltato, chiedergli se aspettava una casa, mostrare che capivo veramente il suo bisogno. Invece lo guardai con disprezzo. E lui si sentì più ascoltato dal gruppo che gli dava un capro espiatorio.
Ma andiamo avanti a come siamo arrivati alla fase di “Salvaguardia dell’identità nazionale”.
Abbiamo un po’ sbuffato quando hanno interdetto le lingue non italiane in luoghi pubblici e istituzionali, quindi anche scuole e poi interdizione totale (per motivi di sicurezza, perché dobbiamo capire se stanno preparando un attentato terroristico). Era un motivo di sicurezza. E così ci siamo sentiti sicuri nella nostra lingua italiana, con l’aumento dell’incidenza di parole come “purezza”, “identità”, “feccia”, “frocio”, “clandestino”, e ci siamo riempiti la bocca di Italiano e di Italia.
Poi, certo dopo la lingua, il passaggio è stato sulla religione: “chiunque professi una religione diversa da quella cristiana cattolica sarà indagato e sottoposto a processo atto a verificare che non ci sia contaminazione identitaria …”. Seguivano una serie di eccezioni e cavilli, con una gerarchia di pericolosità delle diverse fedi religiose, per bypassare la garanzia della libertà religiosa della Costituzione (Italiana). Noi non siamo religiosi in famiglia, anche provenendo da diverse tradizioni religiose e così non ce ne siamo occupati molto. Adesso mi torna in mente quella poesia che alcuni riportano a Brecht: “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”.
Non sentimmo davvero gli effetti di queste prime direttive, perché non ci toccarono da vicino. Iniziammo a uscire dalla superficialità del “sono solo pagliacciate”, quando a scuola di mio figlio cacciarono nove bambini. Erano sopra “il numero di stranieri consentito per classe”. Mio figlio tra questi nove bambini aveva il suo migliore amico. Dicemmo che si era trasferito. Era vero, lo avevano trasferito in un’altra scuola che aveva meno bambini stranieri, al di sotto della soglia massima. Ma non dicemmo perchè. Ci vergognavamo. Avevano fatto la lista di bambini e bambine straniere e avevano trasferito gli “eccedenti”, scegliendoli tra quelli di provenienze più temibili, odiose, le maestre usarono un eufemismo: “più lontane dalla nostra cultura”.
Ecco questo è stato un altro passaggio. Abbiamo accompagnato, affiancato l’avanzata del razzismo, accettando le sfumature edulcorate culturaliste, assorbendo il discorso implicito sull’incommensurabilità delle differenze, abbandonando qualsiasi speranza di dialogo, incontro, confronto. Non ci siamo neanche azzardati a formulare dei discorsi sul rischio del razzismo differenzialista, figuriamoci, saremmo stati tacciati di essere dei radical chic, degli accademici distanti dalla realtà.
Quando dicevano: prima l’assistenza sanitaria agli Italiani. Un po’ eravamo contenti di fare meno fila al CUP, un po’ ci eravamo convinti che se non c’erano abbastanza fondi per la sanità non era colpa nostra. Ma davvero eravamo più sani? Non sono retorica, intendo che veramente non eravamo più sani. La rabbia, come l’odio, corrode. Corrode veramente.
Quando dicevano: le case prima agli Italiani. Un po’ eravamo sollevati, un po’ ci eravamo convinti che effettivamente era giusto aiutare prima gli italiani. Poi qualcuno ha capito che non era tra gli Italiani, per un cavillo, per un goccio di sangue e allora ha pensato:
“è sempre meglio ampliare i diritti che restringerli. Prima o poi si esce dal cerchio circoscritto degli Eletti”.
Ora nella fase della salvaguardia della nostra identità, a scuola il numero dei bambini e delle bambine straniere deve essere pari a zero. Ecco che mia zia aveva ragione. Forse. Sono ancora in dubbio i criteri con cui verranno riconosciuti i bambini Italiani. Aspettiamo una nuova versione della “limpieza de sangre”. Quante generazioni occorrono per dirsi italiani? Basta un solo genitore di origine italiana? E se il bambino è adottato? Il suo DNA ne fa comunque uno straniero? Chi verrà cacciato via con più urgenza? Il nigeriano spacciatore o l’arabo terrorista? L’ebreo infedele o l’africano sottosviluppato?
E noi cosa facciamo adesso? Cambiamo il cognome? Basta davvero salvare solo se stessi?
Prima gli Italiani. Ma chi sono gli Italiani? Quelli che restano chi sono? Sono così “puri” nella loro identità? Hanno la stessa cultura? Quale? Conoscono Dante e Manzoni? Poi? E che faranno questi Italiani quando ce ne saremo andati? Ecco, qualcosa in me ha già deciso che me ne andrò anche io.
Perchè non ci si salva da soli. Perché restare in realtà non sarebbe salvarsi. Perché la penso diversamente e quindi prima o poi, con sangue puro o no, con cognome italiano o no, sarò cacciata.
Vado a prendere mio figlio all’asilo, e intanto mi risuonano le domande delle schede governative che stanno girando nei condomini, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, negli studi medici: provenienza, provenienza della madre, provenienza del padre, provenienza del nonno materno… etc. Così, mentre torniamo a casa io e mio figlio, tornato dall’asilo dove sono rimasti in tre in tutta la scuola con provenienze miste “da accertare”,’ tra una cosa e l’altra mi viene di domandargli:
“ma tu da dove vieni?”. E lui semplicemente mi risponde: “dal pancione!”
Danza della malinconia
Posted on February 23, 2013 by thealbero
Inizia con un rintocco. Più rintocchi. Poi prende la forma di un abbraccio, una carezza lungo tutto il corpo. Lungo tutta l’anima. Una carezza lenta e forte. E’ un tango tra la mia anima e la tua offerta di ascolto. Ascolto del nulla. Non c’è parola che esca dalla mia bocca che non venga subito risucchiata. Non ci sono suoni per esprimere queste fantasticherie fumose, queste malinconie lontane, che mi portano in un altrove indefinito. Le note mi sollevano, mi fanno scivolare, mi accompagnano nella caduta, e poi eccole, che mi risollevano, mi prendono come per la ciocca di capelli della mia anima e mi riportano su a ballare ancora. E’ un tango straziante, caldo e lacrimoso a un tempo. E’ un lamento che viene da così lontano che ha dimenticato la sua causa. Ma insiste nel voler essere ascoltato. Seppure non abbia più niente da spiegare. Perché non c’è nulla da spiegare.
La malinconia mi ha trovata e si è seduta accanto a me. Ha posato la testa sulla mia spalla. Poi si è lasciata scivolare lungo tutto il mio corpo, ha aderito al mio fianco, alle mie gambe e mi si è accucciata ai piedi. La malinconia che mi è venuta a trovare ha i capelli lunghi sciolti, ondulati, un po’ bagnati di pioggia incessante. Gli occhi di questa malinconia che mi è venuta a trovare sono grandi e lucidi. Sono i miei occhi. La malinconia mi è venuta a trovare e aveva i miei occhi. E quando alla fine si è sciolta ai miei piedi, mi ha guardato con i miei, con i suoi occhi, e dentro ci ho visto tutte le cose che non ho fatto, dentro ci ho visto tutte le cose che avrei potuto fare, dentro ci ho visto tutti i campi di grano mai mietuti, tutte le distese di sabbia di coste mai esplorate, dove non ci sono orme di piedi umani, ma solo schiuma del mare. La malinconia è venuta a trovarmi e mi ha trascinato in una musica lontana e ripetitiva. Le note diventano così dolci, come un canto di sirene da cui è impossibile fuggire. La mia malinconia, la mia prigione senza sbarre. La mia testa è pesante, persa in pensieri di un’insostenibile leggerezza. Il fumo dei pensieri può essere così dilagante e infinito, così inarrestabile e mellifluo, così dolciastro come il fumo di narghilé e così nauseabondo infine come il fumo di un sigaro toscano.
In queste note rischio di affogare. La mia gola è stretta in un lago di note dolci e ripetitive, tristi e lontane. Affogo nelle mie fantasticherie fumose e incerte, rapita da note dense che mi tirano giù, giù, sprofondo pesantissima con tutto il mio corpo in caverne scure e isolate. Non c’è figura umana se non la mia malinconia che mi è venuta a trovare, che si aggrappa a me, scivola lungo il mio corpo, si appiccica alla mia pelle, si accuccia ai miei piedi e mi guarda con i miei occhi, grandi più del solito e umidi, di un pianto antico bloccato e mai nato.
Un ultimo giro di note, ancora una volta. Poi smetto, lo giuro. Un ultimo giro di note io e la mia malinconia. Ci stringiamo, come gli amanti prima della morte arrivata troppo presto. Io e la mia malinconia danziamo una danza lenta e inesorabile. E ancora la mia malinconia si accascia su di me, scivola lungo tutto il mio corpo, aderisce alla mia pelle, sta per accucciarsi ai miei piedi, e io la riprendo su con un giro di note più incisivo, eccoci di nuovo in un abbraccio, i miei piedi intrecciano i piedi della mia malinconia, le nostre gambe si sfiorano e balliamo, perse in questo fumo di pensieri mai formulati, in queste fantasticherie mai diventate parola. Giriamo in una stanza, in una caverna, in riva a un mare di inverno, su una strada di basolato grigio dopo la pioggia. Devo trovare il modo di salutare la malinconia che mi è venuta a trovare, lo so, in qualche modo devo salutarla. La musica finirà e la mia malinconia che mi è venuta a trovare svanirà con le ultime note.
Lalla e la Signora delle Piccole Cose
Posted on June 4, 2012 by thealbero
C’era una volta una bambina dai capelli ricci, con gli occhi umidi e grandi, che si perse nel bosco. Era piccola, così piccola che neanche camminava, era rotolata giù dalla culla di foglie di banano ed era finita chissà dove. La storia non racconta cosa successe quando la piccola Lalla si perse, ma riprende il racconto qualche anno dopo…
Lalla aveva imparato a camminare ed aveva una mamma, la Signora delle Piccole Cose. La Signora delle Piccole Cose era alta e magra, con i capelli lunghi lisci sempre tirati all’insù sulla nuca e raccolti in uno chignon perfetto. I suoi vestiti erano sempre lindi e profumati. I suoi passi nella casa erano veloci ma felpati, come se camminasse senza poggiare i piedi sul pavimento.
La Signora delle Piccole Cose aveva nella grande casa del villaggio tanti piccoli oggetti per i quali aveva una grande cura. Nella sala di accoglienza, la Signora disponeva sui mobili i gingilli d’oro e d’argento, le statuine di porcellana e di terracotta; ogni cosa al suo posto, ogni cosa spolverata e lucidata; il cavallo d’argento, regalo del matrimonio, era sempre in bella mostra al centro sul tavolo, adagiato sul centrino ricamato; sul mobile di ingresso, erano disposti a gruppetti di tre o quattro: il posacenere d’argento con l’accendino d’argento e la lumaca d’argento, il cacciatore in porcellana colorata con due pecorelle in porcellana bianchissima, la cornice dorata con la foto della Prima Comunione della Signora con due piccole bomboniere in oro, un campanellino e un orsetto; nella credenza, era disposto con estrema cura, il servizio da té bianco e oro sul ripiano superiore, il servizio di piatti di porcellana buona sul ripiano inferiore; nella sala, in mezzo al sofà rosa antico e la poltrona ricoperta di stoffa pregiata su cui nessuno poteva sedersi, stava un tavolino basso di vetro, sempiternamente lucidato, sul quale la Signora disponeva, sempre, nello stesso ordine perfetto: il piccolo cavaliere, la dama bianca, il soldato, la rosa barocca, il cagnolino e il gattino che fungevano da portacandele, con candele mai accese, con stoppino bianco intatto.
Ma in realtà, la Signora delle Piccole Cose regnava in maniera indiscussa nella grande cucina; nei mobili di sopra e di sotto, erano sistemati, con grande ordine, piatti piani e fondi, tazzine colorate spaiate e servizi di tazzine da caffé raffinate, pentole e pentoline in rame e acciaio, vassoi grandi e piccoli, bicchieri da vino, da acqua, da bibite fredde, caffettiere di tutte le dimensioni, lattiere, zuccheriere, spargisale, spargipepe, arnesi per la frittata, per le torte, per il miele e per la marmellata, coltelli per il pane, per gli affettati, per la carne, per il pesce… “No Lalla! No! Lo sai che la forchetta per il dolce non va tra le forchette per i secondi…”, “Sì, mamma”.
La Signora delle Piccole Cose era felice di crescere Lalla nella casa ordinata e perfetta ed era felice di prendersi cura di lei. Ogni giorno la Signora delle Piccole Cose preparava per Lalla la colazione con latte, biscotti e marmellata, i vestiti stirati da indossare, lo zaino con i libri per la scuola, la merenda per il pomeriggio, la camera pulita e il tavolo in ordine dove poter fare i compiti, la cena con alimenti sani e nutrienti per la sera.
La Signora delle Piccole Cose insegnava catechismo ai bambini del quartiere nella chiesa proprio dietro casa; per questo, nella sua stanza, si trovavano statuine e immagini di santi e sante di tutte le sorte, Santa Rita con un pungolo rosso sulla fronte, Santa Chiara con l’ostensorio tra le mani, San Sebastiano con il corpo legato a un palo e martoriato di frecce, e naturalmente, c’erano poi immagini di Madonne in tutte le versioni, dalla Madonna dal viso di bambina di Raffaello alla Madonna Addolorata vestita di nero e oro con il cuore trafitto.
Lalla era felice che tutto funzionasse alla perfezione nella casa, era felice del cibo e dei suoi bei vestitini ricamati e sempre puliti e in ordine nell’armadio, era felice che la Signora si prendesse cura di lei, era felice di poter studiare e andare a scuola.
C’era solo una cosa che a Lalla non piaceva. Ogni sera quando Lalla era ormai pronta per andare a dormire, la Signora le ricordava di pulirsi bene le scapole. Quando Lalla era piccola, era la Signora stessa a occuparsi di questa operazione: prendeva la pietra pomice, la limetta, talvolta dell’acido, ma solo quando occorreva, acqua e sale per disinfettare e infine delle stringhe elastiche per fasciare il tutto ben stretto. Lalla quando era piccola piangeva molto, ma la Signora la tranquillizzava e diceva: “Piccola mia, è per il tuo bene che lo faccio. Non ti preoccupare andrà tutto bene. Sarai una donna perfetta, smettila di piangere”. Poi Lalla pian piano si era abituata a questa operazione serale e con il passare del tempo anche il dolore era diminuito. L’abitudine è un anestetizzante molto potente. Da qualche anno Lalla procedeva lei stessa a questa operazione, così, la sera, prima di coricarsi, dopo aver lavato i denti, prendeva la pietra pomice e iniziava a strofinare forte con la mano sinistra dietro la scapola destra e poi con la mano destra dietro la scapola sinistra. Strofinava forte, forte, Lalla sapeva che prima di smettere doveva gocciolare sangue perché l’operazione fosse di successo. E ormai da qualche mese non doveva fasciare in modo stretto le scapole perché ormai bastava la pietra pomice affinché non ci fosse pericolo di ricrescita.
Così Lalla, ogni sera, da quando era piccola, era stata educata a tagliare le sue piccole ali dietro le scapole. Ora, dietro le scapole di Lalla rimanevano come due ecchimosi larghe con al centro una specie di callo duro, le sue ali amputate.
Così Lalla crebbe e divenne una studentessa modello a scuola e una donna dalle maniere educate e gentili nella società. Così come i piccoli gingilli nella sala e le piccole cose nella cucina, le piccole cose nella vita di Lalla erano ognuna al proprio posto. E la Signora delle Piccole Cose era sempre molto vigile e attenta affinché nulla potesse rompere la tranquillità della casa.
Eppure, qualcosa venne a rompere la tranquillità della casa. Dapprima fu solo un vento caldo e forte, incessante che portava sabbia da chissà quale deserto. I mobili della sala si ricoprivano di polvere, i gingilli non brillavano, il bucato steso si riempiva di sabbia. La Signora delle Piccole Cose decise di sigillare tutte le finestre, chiudere tutte le porte, abbassare le serrande per impedire alla polvere del deserto di contaminare le sue piccole cose. Lalla divenne strana. La Signora delle Piccole Cose se ne accorse e iniziò a guardarla in modo diverso, erano attimi bevi ma chiari come lampi in cui lo sguardo amorevole e dolce si trasformava in sguardo di disapprovazione e disgusto. Lalla iniziò a sentirsi soffocare nella casa chiusa e non vedeva l’ora di andare a scuola per poter prendere aria, per poter sentire i minuscoli granellini di sabbia sulla sua pelle. Poi tornava a casa e la sensazione di soffocamento ricominciava. Si sforzava di tenersi allegra, inventava qualcosa da dire per non insospettire la Signora. Anche lo sguardo di Lalla era cambiato: da bisognoso di riconoscimenti e amore a sguardo sfuggente e talvolta impaurito. In quel tempo di vento dal deserto, Lalla aveva sempre più difficoltà nell’operazione serale alle scapole. Aveva iniziato a non strofinarsi più con l’ardore di prima, smetteva di strofinarsi prima che uscisse sangue dalle ali amputate.
Fu così che impercettibilmente i calli divennero di nuovo carne viva. Il vento smise di soffiare un giorno, improvvisamente, così come era venuto, se ne andò. La Signora delle Piccole Cose aprì di nuovo le serrande, le finestre, le porte e si impegnò nelle grandi pulizie per rimuovere gli ultimi granelli di sabbia che si erano infiltrati clandestinamente nella sua casa, tra le sue piccole cose. Era arrivato il momento per Lalla di decidere dove proseguire gli studi e aveva espresso alla Signora delle Piccole Cose il desiderio di andare a studiare all’Università di Bedampuri. “Lalla come vuoi tu tesoro mio, come vuoi tu, ma mi daresti un grandissimo dispiacere se decidessi di andare. Cosa farei io qui da sola? Io ho solo te e in fondo anche tu hai solo me… chi ti ama di più amore mio?”. Lalla decise infine di andare a studiare nella più vicina Università di Jannasu. La Signora si era commossa e aveva pianto lacrime grosse come fagioli e Lalla non se le era sentita di darle questo dispiacere. In fondo la Signora delle Piccole Cose era davvero colei che si era occupata di lei e le aveva donato tutta la sua vita.
Così Lalla continuò a vivere nella casa con le piccole cose ma una sera, durante l’operazione rituale, si accorse che dietro le sue scapole quelli che erano solo piccoli calli stavano diventando un abbozzo di ali. Dagli occhi grandi e umidi di Lalla iniziarono a scendere lacrime densissime, che non si fermavano. Lalla singhiozzando era scivolata con la schiena lungo la parete del bagno e si era seduta sul pavimento bianco con le ginocchia alte e le mani sul viso affogato nelle lacrime.
C’erano sere in cui Lalla decideva di procedere con l’acido per frenare la ricrescita delle ali. Erano le sere in cui durante il giorno la Signora delle Piccole Cose era stata preziosa per lei, era stata affettuosa e l’unica ad ascoltarla e darle un po’ di calore. C’erano poi le sere in cui Lalla si ritrovava a piangere disperata come se i suoi occhi avessero raccolto tutta l’acqua che manca al deserto, e allora neanche procedeva con la limetta.
Passarono così dei mesi e infine arrivò di nuovo il vento dal deserto. Questa volta il vento fu dirompente. Non ci fu modo per tenerlo a bada. Le finestre furono divelte, le serrande furono scosse, le porte furono spalancate. Anche Lalla fu dirompente. Iniziò ad avere scatti improvvisi di collera, a non mangiare o mangiare troppo, iniziò ad avere dei problemi di asma, le mancava l’aria anche nei luoghi aperti. La Signora delle Piccole Cose fu presa alla sprovvista, si dimostrò schizofrenica: era premurosa e piena di cure, oppure nervosa e pungente nei giudizi solenni, la portava da tutti i medici dei villaggi vicini dimostrando grande sollecitudine e poi sbottava rimproverandola di darle pensiero inutilmente inventandosi malattie assurde, le comprava vestiti nuovi quando ingrassava e poi la rimproverava di mangiare troppo, la coccolava come una bambina e poi lanciava giudizi taglienti sulla sua incapacità di prendersi cura di se stessa. Lalla impazzì. Iniziò a rifugiarsi in mondi propri, a sognare di morire, a immaginare di uccidersi, a provare ad essere un robot insensibile a tutto e a tutti, poi il vento cessò. Tutto sembrò tornare alla tranquillità di prima: le serrande furono rinforzate, le finestre furono riparate, le piccole cose furono ancora una volta messe a posto e Lalla sembrò essere tornata normale.
Ma il vento questa volta aveva lasciato qualcuno. Lalla non aveva veri amici, né aveva amiche degne di questo nome. Nel villaggio ognuno era chiuso nella propria casa con le proprie piccole cose e scambiava solo frasi di circostanza con gli altri. Ma il vento questa volta aveva lasciato qualcuno. Raél era un ragazzo proveniente dal bosco e aveva iniziato a vivere ai margini del villaggio. Lalla e Raél si incontrarono la prima volta sotto un albero di fico e continuarono a incontrarsi ai margini del bosco per condividere la lettura di un libro di poesie.
Lalla provò forse per la prima volta nella sua vita, la curiosità per l’imprevisto. Che grande dono l’imprevisto. Un tardo pomeriggio di fine estate, Lalla si addentrò un po’ oltre verso il bosco, quando il suo piede fece il passo oltre la frontiera tracciata tra il villaggio e il bosco, sentì come una spinta dalle sue piccole ali e un vuoto allo stomaco come quando da piccola andava sulla giostra della nave. Lalla capì che non sarebbe mai più tornata indietro. Appena dentro il bosco, Lalla sentì il suo corpo trasformarsi, i piedi, liberi dalle scarpe strette, recuperavano sensibilità, le gambe erano più leggere e agili, i fianchi non erano quelli grossi di un’adolescente grassa, ma erano quelli tondeggianti di una giovane donna bella, i denti bianchi finalmente apparivano in un sorriso vero tra le labbra succose come frutti maturi, e le ali, le ali finalmente non erano una malformazione ma erano leggere, proporzionate al corpo, perfette.