TheAlbero – in viaggio
Raccolta di testi scelti dal blog thealbero, ispirati dai viaggi in Israele-Palestina.
Coltivando il sogno che un giorno, non troppo lontano,
Uri, israeliano, Sina, iraniano, Jamal, palestinese e
noi che siamo le loro famiglie,
potremo viaggiare da Roma a Jaffa, da Jaffa a Hebron, da Hebron fino a Tabriz e Isfahan, percorrendo sentieri di pace.
Ilaria Olimpico
Testi: Ilaria Olimpico
Foto: Uri Noy Meir
Indice
Israele andata e ritorno. La sirena
Schizzi di viaggio da Tel Aviv a Eilat
Appunti dalla Galilea – Di Fatima, Maria, Dea Madre e San Francesco
Appunti dalla Galilea – Shalom Salam
Non ti accontentare, figlia mia, di una sola storia
La Madre sulla soglia. Storia da Khalil – Hebron
Israele andata e ritorno. La sirena
Posted on June 11, 2019 by TheAlbero
Arrivata da un giorno. Siamo a tavola. Mangiamo pita e cavolfiore con tahina. Suona la sirena. Immediata, nonostante l’età avanzata, senza dire nulla, lei si alza come rispondesse a un imperativo supremo. La sirena. I bombardamenti. I missili. Gli aerei. I rifugi. Dove andiamo? La durata di un’esalazione di respiro e capisco che è “solo” la sirena del Memorial Day. La guerra così vicina. La guerra dentro.
Stesso giorno. Siamo in giro. Stiamo per rientrare in macchina. La sirena. Lo spazio si congela. Le persone fermano le macchine, scendono, si congelano in piedi. Anche noi fermi, in piedi. Io e mia figlia non siamo proprio congelate. C’è come una memoria nel sangue per questa sirena. La guerra così vicina. La guerra dentro. La guerra nel sangue della memoria.
Sono una bambina e guardo sotto il sedile dell’autobus per accertarmi che non ci siano bombe. Ho imparato presto. Sono una signora che non prende l’autobus perché ha paura che ci siano le bombe. Sono un bambino nella safe room che aspetta che il pericolo dei missili finisca. Sono io questa bambina e questo bambino? O me l’hanno raccontato?
Scoppio forte. Vetri in frantumi. Silenzio. 1,2,3… Mia sorella trema, o forse mia madre…* l’ho sentito tante volte questo racconto che sembra ci fossi io quella volta a Tel Aviv.
Ma sono anche il bambino che vive nella memoria tramandata di una casa perduta di cui il nonno conserva le grandi chiavi, cantando “Ritorneremo”**. Sono io la vecchia seduta sulle macerie separata dalla sua casa da una rete metallica. Sono io che urlo ai “passanti fugaci: da voi un carro armato, da noi una pietra”***.
Ultima sera. Sono al teatro di Tel Aviv “Suzan Dellal”. Per la durata di un’esalazione di respiro, passa nella mia testa la scena di un attentato al teatro. Buio. Sipario. Siamo ancora tutti salvi. Il terrore sotto pelle. Il terrore dentro. Musica. Un gruppo di donne, over 60, in abiti colorati, danza semplicemente e armoniosamente sul palco. All’improvviso: la sirena. Gli abiti allegri sono coperti da tute verdi mimetiche, militari. Movimenti lenti, tableaux vivants di corpi in guerra. Madri, soldati, vittime e carnefici si confondono. Movimenti tra paura e potere si fermano in immagini corporee tra disperazione ghiacciata e gesti di ultima umanità. Pezzi di corpi cadono giù dal proscenio. Braccia e gambe senza vita rompono lo spazio tra il rappresentato e il reale. Tra loro in tuta militare e noi in abiti civili. La sirena. Di nuovo. La guerra dentro. Toglietevi quelle tute. Fate tacere la sirena. Il cuore non mi regge. La guerra dentro. La guerra intollerabile.
Ho steso un tappeto di preghiere e lacrime, di scuse e compassione, verso di te, e allora, perchè non arrivi?**
* citazione dal testo del video art di Uri Noy Meir “In-bodied memories”
** suggestioni dal libro “Bab al-Shams – La porta del sole” di Elias Khoury
*** citazione dalla poesia del poeta palestinese Mahmoud Darwish “Passanti tra parole fugaci
Schizzi di viaggio da Tel Aviv a Eilat
Posted on May 24, 2019 by TheAlbero
Tel Aviv
Tavolette di cioccolato bianco in verticale e cubi bianchi come palafitte moderne tra cespugli di fiori arancio e rosso.
Yafo
Dèja’ vu in vite passate di edifici in pietra beige e strade di ciottoli bianchi e scivolosi.
Ebrei dallo Yemen
Sagome avvolte da teli e veli in bianco e nero. Visi di donne incorniciati da antichi pendenti argentei. Tende. Case. Terre. Lasciate. Prese. Perse.
Verso Eilat
Strade ampie tra tappeti ondulati di terra e paglia.
Autogrill sulla linea del deserto. Caffè speziato e burekas calde al tavolo di un camioncino decorato a fiori, squarcio degli anni Settanta nel Duemila.
Di traliccio elettrico in traliccio elettrico, di capra in capra, passiamo dagli alberi dalle grandi chiome alle tamerici stanche aggrappate tra la sabbia chiara, ai cespugli bassi e radi, tra onde beige di terra arida.
A destra e a sinistra della grande strada nera asfaltata che percorriamo, prendono forma mari di terra con onde giallo ocra, beige, rossiccio, marrone caldo, verdastro e rosa antico.
E infine la sabbia, le pietre e il terriccio si sedimentano scolpendo rocce dai tagli più netti, da cui emergono maschere di faccioni imponenti eppur quieti, e animali che si trasformano di curva in curva, quello che sembrava un coccodrillo diventa il muso di una grande scimmia, la coda di serpente diventa la testa di una tartaruga.
E poi di colpo, uno scoppiettio verde di palmeti ci sorprende ancora.
Mitzpe Ramon
Silenzio rosato.
Altipiani leccati dal vento in un orizzonte celeste pallido che si riposa nel gran caldo di Mitzpe Ramon. Solo la sera, immagino, il cielo si caricherà di un azzurro intenso e darà contorni più precisi agli altipiani.
I miei occhi si specchiano negli occhi di una giovane yael che mi guarda prima di saltare dal muretto di pietre bianche giù tra i dirupi.
Poesia lampo in macchina
Un viso di rughe scure
Suda
Sulle nude dune.
Eilat
Un avamposto di consumismo in un paesaggio di sogno. Qualsiasi segno umano in questo posto è deturpamento ed eccesso. Palazzi troppo alti. Luci troppo forti. Insegne troppo colorate. Aria condizionata troppo forte. Bar troppo costosi.
Più dolce, più piccolo, più semplice. Riecheggiano parole di Alexander Langer. Voglio essere leggera su questa Terra. In questo paesaggio di linee essenziali, eppure così intenso, mi diventano insopportabili tutte le sub-culture consumiste insinuatesi pervicacemente da Nord a Sud, da Ovest a Est, vendendo il sogno di un’abbondanza soffocante e mostruosa.
Eilat, Dolphin Riif
Eilat sembra lontana appena si entra in questo accampamento meraviglioso di grandi capanne col tetto di foglie di palma secche, panche e tavoli di legno chiaro e persone sorridenti.
Ci accolgono le ruote dei pavoni, il gatto steso sul bancone della reception e naturalmente: i delfini.
“Hine! Hine!” gridano i bambini appena ne avvistano uno. Anche mia figlia a un certo punto inizia a dire “Hine! Hine!” per dire “ecco! Ecco!”. “Hine” questa parola ebraica adesso si coagulerà nella nostra memoria con questa vivida emozione della sorpresa e dell’incanto e non la dimenticheremo mai.
L’eleganza della Natura
Un continuum di eleganza mi accompagna nel viaggio. La natura ha eleganza e grazia.
“Miriàm sai cos’è la grazia? … Non è un’andatura attraente … E’ la forza sovrumana di affrontare il mondo da soli senza sforzo, sfidarlo a duello tutto intero senza neanche spettinarsi. … Tu sei piena di grazia. Intorno a te c’è una barriera di grazia, una fortezza. Tu la spargi, Miriam: pure su di me.” (Erri De Luca, In nome della Madre)
Una yael che si arrampica con naturalezza e scioltezza su per i dirupi è grazia.
Il pavone che apre la sua ruota di piume azzurre, marroni e verde brillante e le fà tremolare come un ventaglio nel caldo è eleganza.
Il delfino che volteggia, non salta, volteggia, nell’acqua col dorso che crea un’onda tra le onde, è eleganza e grazia.
Mare
Solchiamo un mare tra Asia e Africa.
A sud est guardiamo la penisola arabica, a est la Giordania, a nord Israele/Palestina, a ovest l’Egitto.
Anche le acque del mare sono state segnate da confini invisibili. Acque sempre in movimento, mai sempre le stesse, segnate da confini di Nazioni che pretendono di essere un’identita’ statica e immutevole. Che follia i confini. Che follia la staticità.
Mar Rosso, Mar Mediterraneo
Navighiamo piacevolmente in un caldo secco a 40 gradi, condotti dalla versione israeliana di Lucio Dalla con la musica pop in ebraico. Sotto di noi pesci dalla coda arancione e pinne blu, grandi insalate sottomarine e ventagli di coralli bianchi.
Eppure mentre guardo dal vetro nel fondo della barca il mondo incantato dei pesci colorati, mi arriva alla mente un’immagine di corpi e scheletri sott’acqua. I morti annegati nel Mediterraneo. Morti di migranti.
“Lastrichiamo di scheletri il vostro mare per camminarci sopra.” (Erri De Luca)
E mentre dondolo nella barca in mezzo al Mar Rosso, penso ad Aliou che ha continuato a sentire questo dondolio per mesi dopo essere sbarcato in Italia.
E poi all’improvviso mi balena nella mente la scena della mia bambina che cade in acqua. Insopportabile. Com’è insopportabile per le madri migranti perdere i figli in acqua nel Mar Mediterraneo. Il cuore è risucchiato in un buco nero di disperazione da cui esce, vincendo tutte le leggi cosmiche, un urlo inarrestabile.
Appunti dalla Galilea – Di Fatima, Maria, Dea Madre e San Francesco
Posted on May 12, 2019 by TheAlbero
Oggi è la festa della mamma in Italia. Me lo ricordano i messaggi che mi arrivano. Perfetto che abbiamo programmato la visita a Nazareth proprio oggi. Mi accorgo giusto in tempo che mia figlia ha indossato la sua maglietta con la mano di Fatima versione Hard Rock cafe’. Nazareth è una città araba-israeliana (o meglio dire “palestinese in territorio di Israele”?) con cristiani e musulmani prevalentemente. Mi viene il dubbio che la versione rock ‘nd roll di Fatima potrebbe essere considerata offensiva. O forse esagero? Propongo a mia figlia di cambiarsi la maglietta. Così il cambio di maglietta dà alla giornata un imprinting di riflessione interculturale. “Perchè non potevo mettere quella maglietta?” mi chiede col tono curioso, fortunatamente non lamentoso, mia figlia. Cerco di spiegare perché in modo semplice ma senza sacrificare troppo la complessità. Poi concludo: “Come se su una maglietta ci fosse Gesù versione rock and roll – intanto stiamo già camminando verso il “Café Anin” e per strada mi permetto una posa rock star – per alcuni non ci sarebbe niente di male, ma altri potrebbero considerarla offensiva per la figura di Gesù. Noi capiremmo che è qualcosa di scherzoso”. Noi… noi chi? Noi che siamo aperti? No, giudicante verso gli altri che si offenderebbero. Quindi a mia figlia mi limito a dire un vago “noi” che risuona come “io, te e papà”. Mi sembra che la spiegazione abbia convinto mia figlia. Più lei che me in realtà. “Siamo una società multiculturale e bisogna stare attenti a non – si dice – urtare le sensibilità degli altri …”. Questo ultimo blablabla di lezione interculturale era già solo per me, mia figlia aveva iniziato a saltellare e giocare.
In macchina penso a Fatima mentre andiamo verso la città di Maria. Fatima e Maria, le due donne chiamate “vergini”, madri di figli sacrificati: Husayn e Gesù. Fatima amata dai musulmani, Maria venerata dai cristiani. Sia l’una che l’altra, archetipo femminile di dolcezza e grazia, umiltà e abnegazione. Sottomissione?. Niente a che vedere con ‘Aisha, la giovane moglie del Profeta, dai capelli rossi e l’energia esplosiva e ribelle. E neanche con Maria di Magdala, considerata la prostituta, la donna ai margini dell’accettabile, rivalutata dai movimenti femministi – i gruppi Magdalenas – come la figura della donna che sfida le regole della società e lo stereotipo femminile. ‘Aisha e Magdalena che vanno oltre gli hudud, i limiti, come direbbe Fatima Mernissi.
Arriviamo a Nazareth. Ci accolgono le lampade colorate di Ramadan. Mi ricordano il mio periodo al Cairo. Cerco di leggere le lettere in arabo sulle insegne. Le lettere arabe: lettere che si uniscono modificandosi una dopo l’altra, in una danza armoniosa di una parola. L’elegante calligrafia araba ha curve, punti e spazi, alti e bassi, onde e vette. Il divieto di rappresentare la figura umana diventa un vincolo che stimola l’immaginazione e la creatività. Mi colpisce una scritta sulla moschea che ricorda i versi sulla gente del Libro, la comunanza degli Antenati e dei Profeti, cita Abramo, Mosé e Gesù e conclude più o meno così: “non c’è differenza tra noi”. Prosegue l’imprinting di riflessione interculturale della giornata.
Non ci credo! Anche stavolta abbiamo programmato la visita a Nazareth di domenica. Sono quasi tutti chiusi. Solo un paio di negozi di souvenir sono aperti. Mia figlia è colpita da una maglietta per piccoli con l’arca di Noè. E’ scritto Noah. Sembra per lei in effetti, anche se il suo nome è scritto Noa e in ebraico ha proprio un’altra radice. Ok, posso farle un regalo. Mentre cerco la taglia, mi accorgo che, sull’arca, svetta spocchiosa la bandiera israeliana. No, non ce la faccio a comprarla. E’ la seconda volta oggi che devo censurare una maglietta. Prima per questioni religiose, ora per questioni ideologiche, etiche, politiche. Sogno quel giorno in cui leggeremo “c’erano una volta gli stati-nazione, i nazionalismi e il patriottismo” e ci sembrerà così assurdo.
Troviamo una maglietta rossa con i cammelli di Gerusalemme. Perfetto. C’è solo il nome della città. Sogno quel giorno in cui ci saranno solo città sulle mappe senza confini tra stati e sarà possibile che Uri (il mio compagno israeliano), Jamal (il nostro amico palestinese romano) e Sina (il nostro amico iraniano romano) potranno viaggiare insieme in Medio Oriente, da Gaza a Haifa, da Ramallah a Tel Aviv, da Gerusalemme a Teheran, fino a Tabriz.
Arriviamo alla Chiesa dell’Annunciazione. Scorro le rappresentazioni della Madonna dei diversi paesi sulle pareti del cortile. Le scorro ogni volta che torno qui. Non mi stanco mai di fare questo viaggio nell’immaginario dei popoli sulla figura della Madonna. Maria si moltiplica in una varietà plurale e congruente di donne. Non è solo l’archetipo femminile della donna pia e umile, vergine e madre. E’ la Signora scura e maestosa delle Andorre e del Cile. E’ una donna elegante e dai capelli neri e lisci del Giappone. E’ la madre che allatta col seno scoperto. E’ la donna su sfondo oro bizantino col naso dritto e l’espressione seriosa. Schiaccia il serpente, senza sforzo, testa alta, ma senza arroganza, braccia aperte, ma basse, senza fatica. Maria raccoglie l’eredità della Dea Madre, divinità femminile che è Vita/Morte/Rinascita, dolcezza e fermezza, potenza e generosità. Grembo e Terra. Grembo che accoglie e da cui si nasce, Terra che accoglie in cui si muore.
Vita/Morte/Rinascita
Passiamo per il cimitero di Tivon prima di tornare a casa. Mi emoziona sempre visitare la tomba di Immanuel (papà di Uri). Non l’ho mai conosciuto, ma posso percepire quanto fosse una persona speciale. Sento che la qualità di questa tomba è il respiro e il movimento. Le rocce, la terra e le piante, anche quelle secche, mi danno l’energia della trasformazione e del movimento. Non c’è vita e morte e punto. C’è vita/morte/rinascita in un ciclo continuo. Non c’è la cesura dopo la morte. Non c’è una lastra di marmo che sancisce la fine. C’è piuttosto la roccia con le fessure e i buchi, dove l’acqua che mia figlia versa può scorrere. Il marmo blocca, chiude, separa. Mi toglie il respiro. Il respiro di vita. I miei occhi vogliono ri-posarsi, invece, sulla tomba di Immanuel, dove c’è respiro, movimento, vita.
La mia tomba vorrei che fosse così. Vorrei tornare alla terra, al grembo della Terra, senza essere inscatolata e deposta sotto un marmo freddo. “”Quando mi vedrete sul punto di spirare, deponetemi sulla terra nuda” scriveva più o meno così San Francesco di Assisi.
Appunti dalla Galilea – Shalom Salam
Posted on May 7, 2019 by TheAlbero
Stomaco pieno di hummus e felafel. Testa piena di pensieri di fondo.
Occhi lucidi e starnuti fastidiosi che mi deconcentrano. Allergia. A cosa? Sarà qualche pianta che è in fioritura in questo periodo, o sarà piuttosto che il mio corpo deve abituarsi al clima, o sarà piuttosto che il mio corpo risponde aggredendo se stesso perché non può aggredire fuori.
Qui è tranquillo. Continuo a rispondere a chi mi chiede, preoccupata, come stiamo.
Qui siamo al nord, lontano dalla zona delle tensioni. Aggiungo a chi mi chiede dove siamo.
Lontano. Ma lontano quanto? Massimo 2 ore di macchina.
Siamo in guerra? Non so più cosa significa.
La gente intorno conduce la sua vita normale, va al bar e dice Shalom, oppure As-salam alaykum, ossia Pace, passeggia tra fiori di ogni colore in piena fioritura, beve limonata sotto il sole caldo, mangia hummus ai tavolini di legno sulla strada. Anche noi foderiamo lo stomaco di hummus e lo innaffiamo di limonata. Normale. Tranquillo.
La normalità come anestetico.
Qui e altrove. Qui e ovunque.
Come mi è facile sentire fastidio per la contraddizione di questi israeliani che incontro e che parlano di “riconciliazione tra uomini e donne” e dimenticano la riconciliazione più grande che manca in questa terra. Ma come mi è facile dimenticare le contraddizioni che abitano nella mia italianità, proprio in questo momento di menti e cuori chiusi.
Vorrei pregare che non ci succeda nulla. Che tutto si plachi. Eppure non ci riesco. Una voce dentro di me mi fa sentire che sarebbe una preghiera arrogante: perché dovremmo salvarci noi e non gli altri? Forse la nostra vita vale di più?
Non sono preoccupata per noi. Non tanto. E’ piuttosto un dispiacere profondo, sottile e pesante insieme. Non riesco neanche a essere arrabbiata. Rabbia contro chi lancia i missili? Rabbia contro chi provoca il lancio di missili? Rabbia contro il governo? Rabbia contro i civili indifferenti?
Posso immaginarmi al fianco di chi sostiene il lancio di missili da Gaza. Sì, posso davvero. Posso entrare nelle orme dei palestinesi che tramandano il ricordo della nakbah e le umiliazioni, che vivono come cittadini di serie B o in balia di un processo di pace che in realtà è un processo di guerra. Posso empatizzare con la rabbia, la disperazione.
Eppure, allo stesso modo, posso immaginarmi al fianco di chi sostiene la risposta “dura” del governo israeliano, di chi vuole mantenere il controllo sull’altro. Posso entrare nelle orme degli ebrei che tramandano il ricordo della shoah e della paura, che crescono nell’ideale della difesa della casa e della famiglia. Posso empatizzare con la paura, la rivalsa.
Allah akbar. Dio è più grande. Dio è più grande delle motivazioni di ciascuno.
Allah akbar. Dio è più grande di tutti i ragionamenti etici o strategici, pacifici naif, nonviolenti frustranti o violenti tout court.
Allah akbar. Dio è più grande di tutti i piccoli “dii” invocati in nome dell’uno o dell’altro, per accaparrarsi il diritto alla vendetta, alla vittoria, alla violenza.
Tikun olam. Riparare il mondo. Riparare lo strappo che stride tra me e me, quando per disumanizzare l’altro, disumanizzo me.
Tikun olam. Riparare il mondo per rimettere insieme i pezzi di una terra che ciascuno tira dalla sua parte, e chi è più forte, più forte tira.
Tikun olam. Riparare il mondo per tessere insieme una storia che includa più storie.
Ci sono le bandierine in bianco e blu sulla strada che ci porta a Haifa. Per la giornata dell’Indipendenza. E io traduco nella mia testa: nakbah. Una giornata, più storie.
Per mia figlia, le donne con il capo coperto hanno il velo, non riconosce la differenza tra la maniera di coprire il capo islamica e quella ebrea ortodossa.
Eppure, in quella differenza di coprire il capo, passa la differenza tra Indipendenza e Nakbah, Liberazione e Oppressione, Sicurezza e Ingiustizia, Terra promessa e Terra sottratta.
Come cambia il mio modo di interagire qui durante gli anni…
Le prime volte, se andavamo in un mataam, ristorante arabo, volevo a tutti i costi dire qualcosa in arabo, così, come per dire, io sto dalla vostra parte, sono tra ebrei israeliani ma non sono una di loro.
Ora, andiamo in un ristorante arabo con il cortile che rimanda il cinguettio degli uccelli e il canto del gallo, dove ricordo il gusto del caffè con il cardamomo che prendevo a Beirut, e invece di rispondere: shukran, mi viene quasi naturale dire: toda’.
Quale contrasto tra la durezza delle armi portate da giovanissimi soldati e soldate e la dolcezza delle colline tondeggianti della Galilea. Ghalil, tondeggiante. Vorrei poter essere una pittrice impressionista per restituire le morbide curve del giallo, l’alternanza tra massi grigi tondeggianti e fiori dagli steli altissimi bianchi, viola, fucsia, gialli. Quelli viola sono i kipodan, brillanti e caldi nella luce e pungenti al tocco. Terra di Kipodan e fichi d’India. Terra di dolcezza racchiusa tra le spine.
Come è ruminare ogni giorno l’amarezza di non essere pienamente in pace?
Come è digiunare di pace, digiunare di fiducia, di riconciliazione?
Digiuno. E’ iniziato il Ramadan.
Ramadan karim. Mese generoso.
Allak akram. Dio è più generoso.
Non ti accontentare, figlia mia, di una sola storia
Posted on April 26, 2019 by thealbero
Non ti accontentare, figlia mia, di una sola storia. La verità ha bisogno di tante storie. E’ importante avere tante storie.
– E mentre camminava lungo il muro con la figlia ormai quasi ragazzina, sentiva l’urgenza di liberarla dalla trappola di una sola storia sulla sua terra. –
I cartelli della pubblicità all’aeroporto, ti inviteranno nel paese, con immagini di spiagge rilassanti, spiritualità, palazzi alti bianchi moderni e mura beige antiche. La tua terra è anche questa storia.
Vedrai bambine e bambini allegri che vanno in bici tra stradine antiche, mentre anziani con la kippah giocano a carte, seduti su sgabelli di legno in vecchio stile. Vedrai bambini che scrutano di nascosto, sdraiati sulla cima della collina, i carri armati che sfoggiano il potere. La tua terra è anche queste storie.
Potrai mangiare hummus e ognuno ti dirà che è il “suo cibo tradizionale”, potrai andare nei locali di Tel Aviv, dove i giovani sono come tutti i giovani di tutte le grandi città del mondo e poi potrai rifugiarti nell’Hospice austriaco a Gerusalemme, dove gli uccellini cinguettano e l’acqua delle fontane scandisce la tranquillità, mentre prendi un tè alla menta. La tua terra è anche queste storie.
Ci sono mura antiche, beige e gialle, bianche e nere, che si possono fiancheggiare durante le prime giornate di primavera, passandosi tra le mani un rosario o una misbah, pregando che le porte della città sempre vengano aperte. Ci sono muri moderni, grigi di cemento, che tagliano territori, villaggi e cuori. Non hanno porte questi muri. La tua terra è mura antiche e muri moderni. Apri le porte degli uni e inventa le porte per gli altri, amore mio, apri le porte del cuore, della città, del paese. Moltiplica le storie in cui si aprono le porte, ti prego.
Voglio raccontarti la storia di una Madre sulla soglia in una città incubo, perché un giorno, quando sarai abbastanza grande, potrai opporti all’ingiustizia che si fa chiamare “sicurezza” anche nel tuo nome. Ma voglio anche raccontarti di donne che raccontano, Zochrot, si prendono cura che non ci sia una sola storia, E voglio raccontarti di donne e uomini che rompono il silenzio:* e insieme, con alle spalle fucili spezzati ** usati gli uni contro gli altri, si abbassano, sì, si abbassano insieme, per seminare e piantare germogli di nuove possibilità, di riconciliazione, di fiducia, di pace.
* riferimento a Breaking the Silence breakingthesilence.org.il
** riferimento a Combatants for peace cfpeace.org
La Madre sulla soglia. Storia da Khalil – Hebron
Posted on April 6, 2013 by thealbero
La Madre sulla soglia è una figura di donna avvolta in una jallabya con fantasie in bianco e nero che parte dal capo e arriva fino ai piedi.
Quando arrivo alle sue spalle, dalla discesa tra le pietre bianche e gli ulivi, la Madre è sulla soglia delle sua piccola casa, con le mani tra le mani. Le passo vicino, mentre porto con me tutto il dolore della visita in questa città antica alla quale viene strappato il cuore. Porto nel mio corpo tutto il dolore della visita nella città che dovrebbe essere dell’amico di Dio, Ibrahim-Abramo-Avraham, e che è diventata il microcosmo dell’esercizio del potere dell’uomo sull’uomo, nelle sue forme più crudeli e paradossali. Sento lo stomaco chiuso, il cuore stretto e pesante.
“As-salam alaykum” saluto la Madre sulla soglia con voce dolce che vorrebbe essere una carezza e un abbraccio. “Alaykum as-salam” la voce della Madre sulla soglia è triste. Il suo volto è intenso e bellissimo. “Kifik?” le chiedo come sta e, mentre lo dico, sento che è una domanda retorica, quasi fastidiosa, in quel luogo, in quel momento. La Madre sulla soglia si stringe nelle spalle, nei suoi occhi intensi c’è un’urgenza particolare. “Mio figlio era stato preso dai soldati, ma è tornato. Ma mio nipote non è tornato, lo hanno preso i soldati”. “Al’an?” “Sì, adesso”.
Lo sguardo della Madre sulla soglia reclama dall’orizzonte il ritorno del nipote. Questa figura statuaria, completamente coperta dal velo e dalla jallabya in bianco e nero, ha un’incredibile potenza plastica, emana un’energia e una forza inspiegabili.
“Puoi chiedere ai soldati dov’è?”. “Non lo so, ma posso chiedere ai miei amici cosa si può fare. Come si chiama?”. “Ibrahim Nahadu”. “Ibrahim Nahadu” ripeto, per essere sicura di aver capito bene. Ibrahim nell’Islam è detto khalil Allah, l’amico di Dio. Il piccolo amico di Dio preso dai soldati nella città dell’amico di Dio, dove il divino e il senso di amicizia e alleanza sono sbriciolati, maciullati, calpestati, macinati.
“Thank you” la voce della Madre sulla soglia vacilla, il pianto le si è conficcato nella gola, i suoi lineamenti, precisi e dolci a un tempo, tremano, scossi da un conato di disperazione. Non è la donna palestinese dei video che ho visto, che alza le mani tragiche sopra la sua testa, che urla in un pianto di rabbia e dolore. La Madre sulla soglia rimane nella sua figura compatta e intensa, nella sua jallabya in bianco e nero, con le mani nelle mani, in una dignità sovrumana, in un momento disumano. Solo quando le prendo le mani tra le mie e l’abbraccio forte, la Madre, mia madre, mia sorella, si abbandona per pochi istanti a un pianto sommesso e si stringe a me, sua sorella, sua figlia, sua madre.
“Allah ma’aki, Dio sia con te”, è l’unica cosa che riesco a dirle in arabo quando le stringo le mani per l’ultima volta, prima di lasciarla lì, sulla soglia della sua casa, da dove non si è mossa di un millimetro.
Mi volto, i miei piedi continuano a scendere, per la strada di pietre bianche tra gli ulivi e il cimitero, e il mio corpo è scosso da singhiozzi che non riesco a fermare.
Arrivo sopra Shuhada street, la strada di un mercato fantasma, dove le serrande sono chiuse e i coloni israeliani hanno scritto “gli arabi alle camere a gas”, dove si consuma la follia della separazione di uomini e donne da altri uomini e altre donne, come se fossero razze di bestiami diversi, da dividere con recinti e sbarre, da controllare da torrette curate architettonicamente, da impaurire e umiliare sfoggiando equipaggiamenti militari da videogame ultima versione.
E mentre saliamo sul minibus con i volontari di “Breaking the Silence” e il guardiano dei coloni ci chiede i passaporti, ho negli occhi, nel cuore, nella mente, lo sguardo intenso della Madre sulla soglia che attende che l’orizzonte le restituisca la vista del ritorno del suo Ibrahim.