TheAlbero – Immagini e Storie
Le immagini schiudono infinite storie da raccontare. Polisemiche ed evocative, aprono le porte dell’immaginazione.
Segue una raccolta di testi scelti dal blog TheAlbero ispirati dalla pratica che combina linguaggio visuale/fotografia partecipativa e storytelling/scrittura creativa.
“Immagini e Storie” può essere considerato il seme che ha dato vita a TheAlbero. Nel 2012 Uri Noy Meir mi inviava delle foto scattate da lui e io gli inviavo delle storie scritte da me ispirate dalle sue foto. A questa esperienza, ha fatto seguito l’esplorazione della combinazione tra la ricerca sulla fotografia partecipativa di Uri e la mia ricerca sullo storytelling partecipativo, entrambe nell’ambito dell’Estetica dell’Oppress@.
Nel 2012 alcune delle Storie sono diventate anche progetti audio (si trovano su youtube cercando “TheAlbero – Images&Stories”).
Un tentativo di sistematizzazione della nostra esplorazione si trova nell’articolo pubblicato nel libro curato da Hjalmar Jorge Joffre-Eichhorn “Ensayando el despertar: Miradas movilizadoras desde el pluriverso del Teatro del Oprimido” (2019).
Il frutto di “Immagini e Storie” è il progetto “Story Lab”, un set di carte immagini accompagnato da una serie di attività-esercizi da svolgere.
Ilaria Olimpico
Se non specificato altrimenti: Testi: Ilaria Olimpico Foto: Uri Noy Meir
Indice:
Deep blue – Profondo blu
Pescatore
Troppo
Trabucchi
La Signora in Blu
Inconsistenze e riflessi
Il volo
Sari
Metropoli
Carmen e Carmencita
Sotto la maschera
Maschere bianche, lacrime nere
L’Eroe
L’ultima pecora
Deep blue
Profondo blu
Posted on October 8, 2020 by TheAlbero

Let me be all alone.
Lascia che io sia da sola.
Let me be in my inner wholeness.
Lascia che io sia nella mia totalità più intima.
Let me be with the gentle dolphins in the deep blue ocean.
Lascia che io sia con i delfini gentili nel profondo blu dell’oceano.
Let me be with the giant turtles in the profoundness of time and space.
Lascia che io sia con le tartarughe giganti nella profondità del tempo-spazio.
Don’t call me back.
Non chiamarmi per tornare.
My body just wants to drown in the deep blue.
Il mio corpo vuole soltanto annegare nel profondo blu.
Or, if you really want me to come back, touch me.
O, se davvero vuoi che torni, toccami.
Touch me, so I can feel the World again.
Toccami, così che possa sentire il Mondo ancora.
Without touch I am lost.
Senza tocco, sono persa.
I am overwhelmed by the distress, the anxiety, the fear of our time.
Sono sopraffatta dall’angoscia, dall’ansia, dalla paura, proprie del nostro tempo.
My body feels heavy, cold, with no energy.
Il mio corpo si sente pesante, freddo, senza energie.
If you want me back, touch me.
Se vuoi che torni, toccami.
I will come back for a while.
Tornerò per un po’.
And then again, I will let me drown in the deepest blue of my dreams,
alongside patient turtles and joyful dolphins.
E ancora poi, mi lascerò annegare nel più profondo blu dei miei sogni,
Insieme alle tartarughe pazienti e ai gioiosi delfini.
–
Dedicated to all of us, feeling the weight of our time, may we feel the blue deep inside and come back with new hope, courage and compassion.
Dedicato a tuttə noi, che sentiamo il peso del nostro tempo… che possiamo sentire il profondo blu dentro di noi e poter tornare con nuova speranza, coraggio e compassione.
Immagine: StoryLab (Graphic project – progetto grafico: Yearim Valeria, Picture – foto: Jeremy Bishop)
Pescatore
Posted on January 1, 2020 by thealbero

Pescatore stanco,
è pesante una rete vuota
e vuota è l’attesa di un pesce di nome Godot.
Pescatore stanco,
i piedi gelano negli stivali gialli, umidi e pesanti,
le articolazioni delle mani si irrigidiscono, sfugge l’amo, scivola la rete tra le dita.
Pescatore stanco,
è una lisca di pesce la vecchiaia senza compagnia,
un pesce gonfio a galla la vita senza orizzonti.
Pescatore stanco,
è basso il capo, molli le ginocchia.
Tua moglie mantiene le dita vive e danzanti, ha tessuto un’altra rete.
Tua moglie riempie di fili colorati l’attesa, ha ricamato un altro mandala.
Tua moglie taglia i rami secchi e si prepara per un’altra primavera,
la primavera dai fiori bianchi tra i capelli bianchi.
Tua moglie mantiene lo stupore negli occhi incastonati tra le rughe,
fa poesie di curve celesti di lago e di montagne all’orizzonte del mattino.
Pescatore stanco, la Vita ti aspetta ancora,
togli gli stivali umidi e pesanti, riscalda i piedi,
ripara le reti, torna a casa e parti.
Troppo
Posted on August 28, 2015 by thealbero

Quando ero piccolo mi portavi con te al mare, sedevamo vicini e mi dicevi tutto quello che non ti era piaciuto di me, io ero piccolo, troppo piccolo per sopportare il carico di dispiacere, frustrazione, tristezza, senso di colpa e corrosione della mia autostima. Ero troppo piccolo anche per nominare tutte queste cose e allora mi rifugiavo nelle onde del mare, un po’ per non sentire troppo, un po’ per affidare al mare tutto quello che non riuscivo a sopportare.
I tuoi sguardi erano amorevoli, ma al tempo stesso sapevano essere severi e giudicanti. Ahi, come fanno male i tuoi occhi severi, i tuoi occhi giudicanti. Tu, la persona più importante della mia infanzia, che diventi il mio giudice più implacabile.
Da piccolo, e poi da adolescente, cercavo di sfuggire al tuo controllo, per sperimentare, per cercare chi ero al di la’ dei limiti che mi imponevi, ma tornavo sempre nel cerchio che mi circoscrivevi intorno. Troppo insostenibile era il tuo sguardo di disapprovazione. Troppo doloroso era il sentimento di tradirti. Eppure tu continui a dire che ho sempre fatto di testa mia… beh, la mia testa è accerchiata dalla tua voce che commenta ogni mia scelta, ogni mia azione.
A volte ti è scappato dalla bocca che è stata una responsabilità troppo grande farmi da padre e madre, a volte ti è sfuggito dalle labbra che sono stato un peso. Quando non ti lasci sfuggire dalla bocca e dalle labbra la verità, dici che sono stato la cosa più bella nella tua vita. Ma quello che mi è rimasto inciso nel cuore come una cicatrice indelebile sono le cose che ti sono sfuggite dalle labbra e dalla bocca.
Sei capace di inventarti un’immagine di me che ti piace e di raccontarla alla gente del paese, la racconti per raccontarla prima di tutto a te, per consolarti, per dirti che, tutto sommato, tuo nipote non e’ una delusione. Mi sembra di sentirti quando ti aggrappi ai dettagli del mio lavoro per tessere le mie lodi, quei dettagli che più si avvicinano al tuo ideale di professionalità e serietà. A volte ingigantisci così tanto questi dettagli da farmi apparire anche ridicolo. Ma, intanto, di sottofondo, scorre la verità, quella che, a volte, sfugge dalle labbra e dalla bocca, e allora ti capita di condire i tuoi discorsi di fiele e giudizio. Tolti i dettagli che usi per affabulare la gente su quanto è in gamba tuo nipote, escono allo scoperto i tuoi commenti sul mio lavoro insicuro, incomprensibile a tratti, inutile sicuramente e di poco valore certamente.
Non ho mai osato contraddirti, anche se ovviamente tu dici l’esatto contrario, avevo troppa paura di aprire una voragine di distanza tra me e te, l’unica persona di riferimento, l’unica persona di famiglia rimasta. Quando sono stato male e le tristezze non dette mi hanno fisicamente tagliato i lati delle labbra e gonfiato lo stomaco, sono scappato. Si’, è da vigliacchi scappare. Ma forse è comunque meglio che restare a lasciarsi tagliare le labbra e gonfiarsi lo stomaco. Volevo sparire. Morire per finta come fa’ Mattia Pascal. Ma ovviamente, sono tornato da te. Più umiliato di prima.
Mi sembra che godi dei miei fallimenti perché confermano che avevi ragione tu e che dovevo seguire le tue orme. Mi hai sempre fatto capire che non si può fallire, che è una vergogna, che è un’indecenza. Mi hai sempre fatto intendere che bisogna fare solo ciò per cui non si rischia di fallire. E così mi hai paralizzato per sempre.
La tua vicinanza mi ha sempre contagiato la malattia della non fiducia nel mondo. Mi dicevi sin da bambino che non potevo fidarmi che di te e di te solo. Tutti gli altri tradiscono, mi dicevi sempre. E se mi fidavo di qualcuno, ti sentivi tradito tu.
Ora, posso solo scriverti tutto ciò e non posso dirtelo, perché ti farebbe troppo male, e pensare alle lacrime che scorrono tra le tue rughe mi strazia l’anima. Forse è questo, è che hai sempre avuto rughe dove non volevo scorressero lacrime. Per salvare le rughe del tuo viso dalle tue lacrime ho condannato le mie lacrime a scavare solchi profondi come rughe centenarie nel mio cuore.
Vorrei tanto potermi liberare dalla tua voce grave e dal tuo sguardo severo. Se solo riuscissi a liberarmene, potrei camminare fiero, cadere e rialzarmi, senza sentirmi fallito e sciocco, potrei trovare chi sono davvero, consentendomi di sbagliare e di fallire.
Una volta, un mio amico mi ha detto che suo padre guardava ogni cosa che faceva con curiosità e meraviglia… mi sono sentito inondato da una sensazione al tempo stesso avvolgente e stritolante… era esattamente lo sguardo che avrei voluto su di me da te e non avevo mai avuto. Uno sguardo di curiosità e meraviglia. Quello che mi avevi sempre gettato addosso, invece, era stato uno sguardo di apprensione e aspettativa, uno sguardo che mi riempiva di paura di deludere e ansia di sbagliare.
Sono tornato qui, ai gradoni di cemento vicino al mare, per affidare al mare tutti questi pensieri, perché anche adesso che sono adulto, sono un carico troppo pesante da sopportare.
Foto: Ilaria Olimpico
Trabucchi
Posted on November 21, 2013 by thealbero

Mi manca non tanto la mia terra, ma il mio mare. Mi manca sapere che posso correre sulla sabbia soffice, camminare sui sassi enormi, andare verso la costa, verso l’apertura della terra. Qui, invece, mi sento circondata, senza mare. Qui mi sento chiusa, senza orizzonti spianati, puliti, liberati. Mi manca il mio mare con il cielo che a volte è il suo riflesso, a volte il suo doppio, a volte il suo contrasto.
Quando ero piccola, la vecchia pescatrice Nina mi raccontava le storie che pescava. Le sue storie partivano sempre dai trabucchi, le antiche macchine da pesca diffuse sull’Adriatico. Nelle storie di Nina, il trabucco si trasformava in una nave di pirati: vedevo sui ponticelli uomini con la benda nera sull’occhio e un cerchietto d’oro all’orecchio; vedevo all’estremita’ di un’antenna una bella sirena-pirata, una donna bellissima con i capelli al vento e alla salsedine che cantava per richiamare i venti propizi e una pesca abbondante; vedevo sui legni d’Aleppo bambini e bambine pirata, con fusciacche colorate sulla vita e bandane come copricapo, che scorazzavano da un palo all’altro, lanciando grida argentine che si perdevano nelle urla del mare tempestoso; vedevo il trabucco sollevarsi sulle onde, vedevo il trabucco prendere il largo, sganciandosi dalle rocce e andare verso nuove ignote avventure.
Adesso chiudo gli occhi e richiamo alla memoria il mio mare con i suoi trabucchi, ne vedo uno con le antenne protese verso l’orizzonte, con la rete a bilancia, concava, accogliente, che mi sembra una culla per i pensieri belli della mia bambina che sta arrivando. Affido la mia nostalgia al movimento ondulante di questa grande rete. Affido i miei desideri di ritorno al vento che smuove le cordicine con i galleggianti di un rosso sbiadito che contiene tutti i passati. Affido alle onde la mia visione di un futuro in cui il trabucco dei miei sogni si sgancerà dalla roccia e prenderà il largo con pirati immaginifici e sirene danzanti.
La Signora in Blu
Posted on July 20, 2013 by thealbero
C’era una volta una Signora in Blu, e io la ricordo bene perché nel salone di mia zia Sandra c’era il suo ritratto.
Era una signora, non una ragazza, ma era giovanissima, dai lineamenti quasi adolescenziali ma con uno sguardo consapevole di signora matura.
Me la ricordo perché nel salone di mia zia Sandra il ritratto era enorme e catturava subito gli occhi degli ospiti.
La Signora in Blu aveva un velo sul capo ma leggero appena appoggiato, così da lasciar intravedere i suoi capelli castani.
Me la ricordo perché a volte immaginavo di diventare come lei, anche io ero castana e sognavo di acquisire lo stesso carisma di quella Signora in Blu.
A volte, quando rimanevo da sola in casa, mi sedevo su una grande sedia di vimini sulla terrazza dei miei e giocavo alla Signora in Blu; prendevo un vecchio scialle di mia nonna del colore blu del velo della Signora, mi sedevo con la schiena dritta, poi mettevo una mano con il dorso verso il pubblico all’altezza del mio petto e abbastanza distante da me e con l’altra mano mantenevo chiuso il velo sul mio cuore.
Mi impegnavo ad assumere esattamente quella posizione, quella espressione della Signora ma sentivo che mi mancava qualcosa… la mano era troppo decisa, sembrava rifiutare il pubblico, oppure era troppo morbida e sembrava un vezzo da borghese, oppure l’altra mano che chiudeva il velo era troppo attaccata al corpo e sembrava un segno di pudicizia religiosa, oppure troppo debole e sembrava trasmettere una timidezza puerile, a volte le spalle erano troppo rigide e sembravo superba, altre volte la schiena si curvava e perdevo in assertivita’.
Giocavo e rigiocavo alla Signora in Blu perché non riuscivo a trovare l’equilibrio delicato tra l’assertività e la dolcezza, la riservatezza e l’apertura al mondo, il carisma e l’umiltà.
Raggiungere la perfezione di quel ritratto divenne per me da grande un esercizio di teatro, immaginare la vita della Signora in Blu divenne per me un lavoro perchè dalle mie fantasticherie nacque il mio primo romanzo “La Signora in Blu” a cui seguirono altri sempre ispirati da ritratti di Signore.

Immagine: La Signora in Blu è ispirata dal dipinto di Antonello da Messina “L’Annunciata”.
Inconsistenze e riflessi
Posted on December 20, 2012 by thealbero

Mi ha visto! Ecco, forse finalmente qualcuno mi ha visto! La signora con la maglietta a righe e il foulard a quadri si è girata perché ha visto il mio riflesso nel vetro! No, non è vero, sta guardando il vestito in vetrina. Io non sono mai in vetrina. E dunque nessuno mi vede. Non sono mai in vetrina… Non mi metto mai in vetrina? Non mi scelgono mai per la vetrina?
Soffro di inconsistenza visiva e sonora. Esisto. Ma non per gli altri. E allora forse non esisto.
A volte sono al lavoro e nella riunione ho un’idea brillante, davvero brillante, sono modesto, non direi tanto per dire, e allora la dico, ma niente, il mio problema di inconsistenza sonora mi tradisce. Passano avanti, dicono altro. Altre volte dico la mia idea sforzando la mia gola, rischiando di passare per aggressivo, e allora ecco, cosa succede? Un altro nella stanza dice la mia idea, certo non perfettamente nella maniera in cui io l’avrei detta – anzi nella maniera in cui l’ho detta – e poi prende lui tutti i plausi, i complimenti, gli ammiccamenti. Vorrei saltare, gridare “è la mia idea! L’ho detta io per primo!” ma non voglio fare la parte del bambino capriccioso. Anzi in realtà non lo faccio perché sarebbe inutile, la mia inconsistenza sonora e visiva vanificherebbe ogni sforzo. E allora mi accontento di pensare che è una forma di telepatia.
Sì, certamente mi sono rivolto ai medici, agli specialisti. Mi hanno consigliato il canto e la danza. Il canto e la danza! Sono scoppiato a ridere. Per fortuna erano già senza apparecchio speciale e non hanno visto, non hanno sentito. Ma ho dato una chance a questo suggerimento, ho iniziato a cantare e danzare. Niente. Nessuno mai si è scandalizzato per strada e questo significa che non mi hanno né visto, né sentito, perché se avessero avuto la benché minima percezione visiva e uditiva di un uomo che canta e danza per strada certamente si sarebbero scandalizzati. Non mi vedono. Non mi sentono. Eppure mi sono accorto che ho anche una certa armonia nel movimento, e come dicevo, ho delle idee brillanti al momento giusto. Ma non mi sentono.
Sono come muto e invisibile… No! No, non è vero, la signora non guarda il vestito nella vetrina, guarda me nel riflesso del vetro! Guarda me ma non ammette di vedermi!
Non sono io muto e invisibile, sono gli altri sordi e ciechi di me.
Il volo
Posted on December 4, 2012 by thealbero

Sin da quando ero piccolo, ero affascinato dal volo degli uccelli. E forse ogni bambino lo è stato. Ma io non ne ero solo affascinato, ne ero rapito. Mi sedevo sulla terrazza della casa dei miei zii e guardavo il cielo, spiando ogni planata, ogni battito di ali. Mi incantavo a guardare gli stormi di uccelli che disegnavano macchie scure nel cielo pulito. I miei pensieri di bambino, come gli uccelli, si riunivano addensandosi in forme scure, che duravano un solo attimo, per poi virare, trovando una nuova forma e una nuova densità.
A volte sognavo di trasformarmi in un uccello dalle grandi ali e staccarmi da terra. Il mio desiderio era così forte che, a volte, in spiaggia, in estate, correvo dietro i gabbiani che spiccavano il volo per sentire la sublime sensazione dell’ascesa, della vittoria sulla forza di gravità, del distacco da tutto e tutti.
Mi inebriavo con i miei voli immaginifici e immaginari e spesso condividevo più tempo con la mia fantasia che con i miei coetanei.
Quando sono diventato grande, ho continuato a sentire il richiamo, forte, del cielo e la sensazione, chiara, di non essere a mio agio tra gli altri. Quando mi ritrovavo nelle miriadi di scatole in cui volevano rinchiudermi, nei palazzi, negli uffici, nelle case, sempre, guardando dalle finestre, ho cercato di ancorarmi al volo di un uccello, di far volare i miei pensieri sulle sue ali, di avere quell’attimo inebriante di distacco dalla terra.
Adesso che, nella mia maturità, ti ho incontrata, i tuoi occhi immensi e umidi mi aprono cieli di voli ampi e leggiadri e il contatto con il tuo corpo mi dà la stessa sensazione inebriante e sublime del distacco da terra.
Sari
Posted on December 3, 2012 by thealbero

Le mani di mia madre hanno l’odore della curcuma e del cumino. Scure e ormai raggrinzite, le mani di mia madre contengono tutte le carezze che mi hanno dato. Il viso di mia madre è una valle, una montagna, una distesa di sabbia. Serio e allo stesso tempo delicato, il viso di mia madre è la mappa dei miei primi sentimenti. Il sari di mia madre è rosso e oro, blu e oro, verde e amaranto. Morbido e stropicciato, il sari di mia madre è il mio rifugio.
Siamo sette figli e figlie. Sette. Come le scodelle sulla tavola del re nella ninna nanna italiana. Siamo sette parti, settanta doglie, settemila batticuori, sette milioni di preghiere.
Mia madre mi cerca nella folla, riunita per il grande discorso. Mia madre mi cerca con il cipiglio già alzato, per un rimprovero o per la preoccupazione. Io faccio finta di divertirmi e di atteggiarmi da ragazzina, con la mia camicetta chiara e la gonna verde. Faccio finta di non aver capito che la folla si è riunita, non per il discorso ma per la protesta. Faccio finta di non aver capito che il cipiglio di mia madre non è di rimprovero né di preoccupazione, è il cipiglio della consapevolezza dell’addio, è il suo ultimo saluto.
Quando incrocia il mio sguardo, mia madre mi fa cenno di correre via a casa con le altre e gli altri sei. Sette figli e figlie. Sette futuri dopo la protesta.
Quello che ricordo dopo lo sguardo di mia madre, è un tappeto infinito di sari, blu e oro, verde e amaranto, rosso e oro. Il notiziario freddamente annuncia che la rivolta delle donne è stata sedata. Ma noi siamo sette figli e figlie. Siamo settemila parti di coraggio, settantamila doglie di indignazione, sette milioni di passi.
Metropoli
Posted on September 14, 2012 by thealbero

Lettore MP3 preso. Canzoni cambiate. Borsa. Ho chiuso il gas. Ho chiuso il gas? Non ho acceso il gas. Non ho fatto in tempo a fare colazione. Metro. Automi che si incanalano. Scale mobili. Automi che si spingono. Metropolitana dentro. Prima mattina, tutti stanchi. Io sono nella mia musica. Musica muta dei musicisti latinoamericani nella metro. Non ho soldi. Automi che scendono alla fermata della stazione principale. Altra canzone. La prossima è la mia fermata. Io, automa che scende, passa il biglietto nella macchina che controlla, sale le scalette, prende un altro trenino, aspetta che un posto si liberi. Io, prima mattina, stanca. Fermata giusta, ultima. Cammino verso l’ufficio, sono ancora protetta, isolata nella musica del mio lettore MP3. Attraverso. Come sempre rischio la vita. Continuo a essere convinta che io, pedone, senza macchina, senza emissioni di gas, abbia più diritto di passare. Io non inquino, non faccio rumore, non faccio traffico. Meno male, il mio MP3 mi risparmia gli improperi degli autisti infastiditi dalla mia filosofia del pedone. Ma vedo le loro facce. Eccomi. Sono in ritardo, come sempre. Spero non ci sia ancora lui. Dai, dai, questa è l’ultima volta. Percorro il corridoio. Ancora protetta dal lettore MP3. Svolto nell’ultimo corridoio. Tolgo le cuffie. E’ finita. Sono un nuovo automa in un nuovo sistema. E questa volta, per 8 ore, senza protezione e isolamento del mio MP3.
Carmen e Carmencita
Posted on September 14, 2012 by thealbero

Carmen porta con sé i colori accesi e solari del suo Paese. Carmen è sorridente e piena di vita. Carmen danza e canta durante le feste del suo Paese.
Carmen porta sempre con sé Carmencita, la sua piccola bambola di pelle scura e dai vestiti colorati.
Quando era piccola, Carmen stava molto tempo con la sua nonna Marsia e la nonna le raccontava sempre tante storie mentre infilava le perline per fare delle belle collane di legno e stoffa. Poi un giorno di festa, quando Carmen aveva cinque anni, la nonna le regalò Carmencita, questa bambolina di pelle scura e dai vestiti colorati.
Appena Carmen la vide, se ne prese cura, non l’abbandonò un solo istante. Divenne responsabile per sé e per la piccola Carmencita, se ne occupava come una piccola mammina, le preparava da mangiare, le puliva il vestito e le piccole manine scure, le aggiustava il turbante rosso e azzurro, le raccontava le storie, la cullava quando era triste e la portava con sé nelle lunghe passeggiate, trotterellava e faceva giravolte che scoprivano tutti i merletti sotto le loro gonne…
Ma la verità è che era la piccola Carmencita a prendersi cura di Carmen, a proteggerla, a darle forza e coraggio. Carmencita era la materializzazione simbolica della piccola Carmen che scalpitava nella pancia e nel cuore della Carmen timida ed esitante. Carmen da quando aveva con sé Carmencita non era più sola. Si sentiva più coraggiosa. Con Carmencita si avventurava nelle strade mai esplorate, si lanciava nelle danze tra le ragazzine più grandi, ribatteva se i ragazzi la infastidivano.
E così ancora adesso, potete vedere Carmen e Carmencita che danzano nella festa del Paese e nel vortice delle loro gonne che si aprono potete immaginare tutte le paure che si allontanano e tutte le energie che si concentrano.
Sotto la maschera
Posted on July 21, 2012 by thealbero

Messa la maschera, posso girare dove voglio. Le lacrime scivolano sotto la maschera, nascoste, protette. Sulla mia maschera c’è un’espressione truccata, né triste, né allegra, forse sorpresa, attenta. Invece, il mio viso sotto la maschera, non è né sorpreso, né attento.
Non mi interessa. Semplicemente, non mi interessa. Non mi interessa la gente che passa eccitata e allegra. Eccitata per cosa? Allegra per quanto? Non mi interessano né le calli, né i ponti. Ho già visto, già dato. Sono stanca.
Allora, ecco, metto la mia maschera ben truccata, posso essere ora l’una, ora l’altra, dico l’una poi l’altra.
Dentro di me, sotto la maschera, posso proteggere le ferite aperte che si infetterebbero al contatto con gli altri, e si infiammerebbero di vergogna sotto lo sguardo dei turisti dell’anima mia.
Allora, ecco, metto la mia maschera, oro, blu, argento e per i turisti divento la vita, la festa, la celebrazione, il fascino. Posso camminare sicura di me, mi cedono il passo, ho la testa alta, sempre in posa, mi ammirano.
E quando la notte torno a casa e devo togliere la maschera, divento nuda, gli sguardi mi trafiggono, i giudizi mi lapidano.
Maschere bianche, lacrime nere
Posted on July 21, 2012 by thealbero

Il tuo sguardo pesa su di me. Il tuo sguardo è uno specchio che mi riflette la mia condizione di impotenza.
Hai iniziato a piangere lacrime nere come le mie, la tua bocca scura è serrata come la mia.
Siamo bianchi di emozioni. Siamo tabula rasa. Saremmo fantasmi morti se non fosse per quella lacrima. Nera. E quella lacrima nera consacra il tuo sguardo come profondo e indagatore. Mi inchioda nella mia situazione. Il tuo invito a seguirti mi rende solamente, maggiormente, dolorosamente, consapevole del mio limite.
Gli altri sono l’inferno. Gli altri ci restituiscono le nostre ombre, più scure, più dense, più precise, definitivamente più insopportabili. Gli altri ci restituiscono nel loro sguardo le nostre lacrime. Nere. Il tuo sguardo è lo sguardo degli altri. Insostenibile.
L’Eroe
Posted on July 21, 2012 by thealbero

E l’Eroe si addormentò. Anche gli eroi hanno bisogno di dormire. Ma il Ragno della Letargia iniziò a tessere intorno all’Eroe una ragnatela appena percettibile, bianca, sottile. La ragnatela coprì pian piano il braccio dell’Eroe, sempre pronto a intervenire, coprì il petto dell’Eroe, sotto il quale batteva ancora l’appassionato cuore, poi coprì il viso dell’Eroe, dai lineamenti morbidi e distesi, dal naso perfetto, dalle labbra carnose e paghe di bei sogni, infine coprì l’orecchio, ormai già sordo al mondo. Allora l’Eroe fu completamente ricoperto dalla ragnatela della letargia, congelato sotto una lastra di ghiaccio senza volume e pietrificato per sempre.
L’ultima pecora
Posted on September 14, 2012 by thealbero

Sono l’ultima. Sempre l’ultima. Mi mette fretta picchiettando il bastone sull’asfalto. Ma io ho scelto di essere lenta. Ho scelto di essere l’ultima. Sono stanca delle loro paranoie. Degli uni e degli altri. Ci mancava solo il muro. Mia nonna pascolava al di là di questo muro. Mia madre pascolava proprio dove sorge il muro. Io non ho un pascolo preciso. E comunque sono al di qua del muro. Allora ho scelto di essere lenta. Ho scelto di essere l’ultima. Quando dobbiamo fiancheggiare questo muro divento ancora più lenta. Voglio che lo guardino, voglio che ne sentano tutto il peso. Quando passiamo tra i soldati, divento, se possibile, ancora più lenta. Voglio che vedano l’assurdità, voglio che sentano il tempo diventare pesante. E’ per questo che ho scelto di essere l’ultima, per protesta.